Hermes Carbone - 08 Marzo 2025
Guido Signorino, professore ordinario di Economia applicata dell’Università di Messina, espone al QdS le possibili implicazioni dell'aumento delle spese militari per i fondi europei per la Sicilia.
In un clima di crescente tensione internazionale, l’Unione Europea ha annunciato negli scorsi giorni un ambizioso piano di riarmo dal costo stimato in 800 miliardi di euro. Per finanziare questa iniziativa, l’UE ha stabilito che ogni Stato membro potrà fornire su base volontaria una quota di questi introiti provenienti da fondi comunitari non ancora spesi, inclusi quelli destinati alle regioni meno sviluppate.
Il rischio concreto è che possa essere la Sicilia a rinunciare a un’ingente quota parte di quei circa 7 miliardi di euro provenienti dal Fondo Sociale Europeo (FSE) e dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) e non ancora impegnati in progetti.
Il riarmo dell’Unione Europea, il monito di Fitto
Durante un incontro a Roma con i presidenti delle regioni del Sud Italia, a fare il punto è stato il commissario europeo Raffaele Fitto, che ha espresso preoccupazione riguardo l’attuale situazione dei fondi comunitari. E sottolineato che, se il progetto di riarmo dell’Unione Europea proseguirà come previsto, una parte significativa dei finanziamenti potrebbe provenire da lì.
Si tratta di un bacino economico di primaria importanza, non soltanto per il Sud. Si pensi che circa la metà del progetto del ponte sullo Stretto di Messina – al momento rimasto in stand by in attesa del pronunciamento del Cipess – proviene proprio da FSC: 4,6 miliardi dall’amministrazione centrale e 1,6 miliardi di euro di Fondi FSC delle Regioni Sicilia e Calabria.
La risposta della Sicilia e le cifre di utilizzo FSE
Al rientro da Roma, il presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, ha convocato una riunione urgente con i dirigenti responsabili della programmazione, tra cui Vincenzo Falgares, per valutare i margini di manovra e l’impatto potenziale di questa ipotesi sulle finanze regionali. E sono molteplici i progetti che potrebbero saltare, una cui mappa non è però al momento possibile realizzare.
La situazione è resa ancora più critica dai dati sulla spesa dei fondi della programmazione 2021-2027. A livello nazionale, solo il 4,9% di questi fondi è stato effettivamente utilizzato, e la Sicilia non fa eccezione. La Sicilia ha a disposizione una dotazione finanziaria significativa attraverso il Programma Operativo Complementare (POC) 2014-2020, recentemente aumentata di oltre 488 milioni di euro, per un totale di 2,56 miliardi di euro. Fondi sulla carta destinati a promuovere l’innovazione, la sostenibilità e lo sviluppo nell’Isola.
Ma appena due settimane fa, Schifani ha dovuto concordare con il ministro Tommaso Foti un piano di salvataggio per i primi 700 milioni di euro che l’Unione Europea minacciava di recuperare a causa del mancato utilizzo entro la scadenza del 31 dicembre prossimo. I ritardi della macchina politica e burocratica delle Regione rischiano dunque di creare, oltre al danno, anche la beffa per i siciliani.
La natura del “prelievo” e le implicazioni politiche
Secondo quanto spiegato dal commissario Fitto, il contributo degli Stati membri al piano di riarmo sarebbe su base volontaria. Una tesi confermata dalla premier Meloni venerdì mattina fuori dall’europarlamento.
“Abbiamo condotto una battaglia per escludere la possibilità che venissero forzatamente dirottate risorse dai fondi di coesione alle spese per la difesa. È rimasta una clausola per cui alcune nazioni volontariamente possono fare questa spesa. Ma io proporrò al Parlamento di chiarire che l’Italia non intende dirottare i fondi di coesione, importantissimi, all’acquisto di armi”, ha aggiunto la premier ai cronisti presenti a Bruxelles.
Ma delle due l’una: o questa possibilità esiste o non esiste. Ed è quello che la premier sarà chiamata a scongiurare in modo definitivo. Soprattutto in vista di una pressione politica che rende difficile per l’Italia sottrarsi a questa richiesta.
Il Governo nazionale potrebbe per questo rivolgersi alle regioni per reperire le risorse necessarie, puntando proprio sui finanziamenti del FESR e del FSE destinati alla Sicilia. Schifani ha già anticipato che, qualora lo Stato aderisse al piano europeo, la Sicilia sarebbe pronta a fare la sua parte, non potendo tirarsi indietro. La questione rischia di ruotare intorno a un diktat: non se cedere o meno parte dei fondi a Bruxelles, ma quanto cedere.
Riarmo dell’Unione Europea, Signorino (economista Unime): “La Sicilia non può permettersi tagli ai fondi”
“L’Unione Europea si trova di fronte a una scelta cruciale: investire in difesa o continuare a sostenere lo sviluppo economico e sociale delle regioni più arretrate. Ma l’aumento delle spese militari rischia di prosciugare le risorse destinate a progetti strategici, mettendo a repentaglio la crescita e la stabilità del continente. Quindi anche della Sicilia. E indirettamente c’entra anche la questione ponte sullo Stretto”.
A parlare al QdS è Guido Signorino, professore ordinario di Economia applicata dell’Università degli Studi di Messina. “Per comprendere appieno l’impatto di questa scelta dell’UE, può essere intanto utile richiamare un concetto fondamentale dell’economia: il trade-off, teorizzato dall’economista Paul Samuelson”.
Guido Signorino, professore ordinario di Economia applicata dell’Università degli Studi di Messina
In questo principio, Samuelson evidenzia come l’allocazione delle risorse in un settore precluda necessariamente la loro destinazione in un altro. “Un esempio classico – aggiunge l’economista Unime – è quello tra la spesa per il ‘burro’ e quella per i ‘carrarmati’: per gli studiosi, i maggiori benefici all’economia derivano sempre dalla prima risposta”.
Questo perché si tratta di un esempio di investimento in un bene di consumo e appannaggio della popolazione. “Le spese militari, infatti, non generano circolarità economica; le armi sono beni che, auspicabilmente, non dovrebbero essere mai utilizzati e, in quanto tali, non favoriscono una crescita sostenibile. Se l’economia prospera grazie alla circolazione delle risorse, gli investimenti in difesa rappresentano una zavorra. Quella che rischia ora di travolgere la Sicilia”, spiega Signorino.
Nel contesto attuale, l’Europa impone agli Stati membri di aumentare le spese militari, e questi ultimi, a loro volta, traslano il peso economico sulle regioni. “Ma per la regione tutto questo non è davvero sostenibile. La Sicilia, come molte altre regioni in ritardo di sviluppo, subirebbe un impatto devastante se fosse costretta a rinunciare a investimenti cruciali. E si rischia di sacrificare lo sviluppo a medio e lungo termine di chi vive in questa regione”.
La questione ponte sullo Stretto e lo sviluppo infrastrutturale
La Sicilia, in particolare, non può permettersi di perdere fondi essenziali per il proprio sviluppo per il riarmo dell’Unione Europea. Tuttavia, la questione non si limita alla Sicilia: anche la Calabria, la Sardegna, la Lombardia, il Veneto e altre regioni europee sarebbero colpite. Il peso di queste decisioni grava in modo proporzionale sulla condizione economica di ogni area, penalizzando maggiormente quelle più arretrate.
Tra i campi che subirebbero tagli, il settore dei trasporti, della tutela ambientale e dello sviluppo infrastrutturale. Quindi, in maniera indiretta, rischia di rientrare nel calderone anche il ponte sullo Stretto. “Questo perché il progetto è stato giustificato come parte di un piano di ammodernamento delle infrastrutture di trasporto, che prevede un investimento in ferrovie di 40 miliardi di euro destinati a Sicilia e Calabria”.
Il problema è che, con il taglio delle risorse, “molti di questi investimenti potrebbero non vedere mai la luce. E rischiano di saltare segmenti di interventi funzionali all’opera complessiva. Significa che verrebbe meno proprio l’esigenza del ponte in assenza di uno sviluppo infrastrutturale coordinato ed efficiente. E che – per Signorino – ora rischia di rimanere al palo”. Il rischio di incompiute è sempre dietro l’angolo. “Molte opere pubbliche in Italia sono state avviate e finanziate, per poi restare bloccate per mancanza di ulteriori stanziamenti”.
Riarmo, il costo della guerra e il “dividendo della pace”
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Europa fu ricostruita sulla base di un principio chiave: il “dividendo della pace“, un concetto caro a John Maynard Keynes. “Questo dividendo non si limita alla fine di un conflitto, ma rappresenta la crescita economica e il benessere che derivano da una stabilità duratura. I “miracoli economici” vissuti dal continente nel Dopoguerra – spiega ancora l’economista – sono stati possibili proprio grazie a questo principio. Oggi, l’aumento delle spese militari rischia di vanificare decenni di progressi, condannando le regioni più deboli a nuove difficoltà. Inclusa la Sicilia”.
Fonte: qds.it
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