Vi sono avvenimenti che ci capitano come epifanie: improvvise rivelazioni del nostro stato delicato e fragile, come dono prezioso.
E dire che normalmente ci crediamo i proprietari assoluti delle nostre vite, i detentori del nostro corpo e del nostro tempo.
Invece siamo solo foglie portate via dal vento.
A un anno dal mio infortunio mi succede, nel parlarne, di ritrovarmi con un nodo in gola che, spesso, m’impedisce di continuare. Un nodo che strozza i singhiozzi che vorrebbero uscir fuori assieme ad un pianto apparentemente immotivato.
Avrei bisogno di liberarmi, più che altro, di un senso di ritegno .
Non può esserci vergogna in nessun pianto, soprattutto in quello che vorrebbe gridare il raccapriccio spaventoso dell’imprevedibilità che da un momento all’altro può stroncarci in un istante. Fragile delicatezza che siamo: bellezza senza fine e senza chiara coscienza.
Invero avrei bisogno di parlare del tempo dilatato che ho vissuto in quei frangenti: dell’apparizione di quel turbine rovente, dal cuore giallo splendente, dalle spire rosse vorticose, rosse come l’aria che mi si trasformò attorno ed ogni pagliuzza sul terreno sabbioso bruciava in piccole scintille incandescenti.
Rimasi per un tempo senza tempo affascinato dal portento che si sviluppava attorno.
Ma il dolore del corpo, per fortuna, mi riportava alla spietata situazione che mi riguardava, simile a quell’altra, dalle sorti più nefaste, dei miei compagni nel “93, in contrada Cumma.
Mi riportava al mio amico e compagno di squadra che, appena un momento prima, era scappato via, arrampicandosi su di una recinzione di filo spinato, rischiando di rimanerne impigliato, mentre fuggiva verso una direzione che ritenevo micidiale, senza vie di uscita.
Vedendolo andare lo ritenni spacciato ed io colpevolmente impotente nel non esser riuscito a trattenerlo.
Ora so che fu una fortuna per lui: la più grande!
Ecco che torna sempre la sufficienza dei nostri giudizi, anche quelli ritenuti migliori.
Avrei bisogno di parlare, di raccontare gli avvenimenti ed i miei sentimenti, ma non ci riesco bene.
C’è un groviglio che mi fa ricordare i secondi come minuti o ore.
Il sapore della morte, forte e vivido, da diventare scatto nei movimenti e decisione ad attraversare l’onda di vampe che risaliva, immane aggressione che già mi consumava.
Cosa fare se non tuffarsi dentro di essa? Penetrarla con spregio di paura, come ultima risorsa per salvarsi.
Sacrificare se stesso a se stesso per poter conoscere ancora... il domani.
Questa è la vita, la nostra.
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Invito
Al mio amico Angelo
Infortunio ed antincendio boschivo
Le ferite che porto ancora nell'animo, non sono dovute al terrore, il fuoco non mi fa paura lo combatto sempre e sempre con rispetto perchè insegna tanto, soprattutto ad essere Uomini.
RispondiEliminaSi tratta, invece, di una angoscia recondita, di una paura non tanto per me stesso ma per il compagno, l'amico, il fratello che ci sta accanto...