di Rosario Battiato
Secondo il Cnr il 70% dell’Isola è a rischio di desertificazione: la più
alta percentuale tra le regioni italiane. Incendi, consumo di suolo,
discariche, reti colabrodo: o si interviene o si soffoca
PALERMO – La desertificazione è causata da elementi naturali in
combinazione con le attività umane. Coinvolge la superficie terrestre e
si definisce come un insieme di “processi di declino delle potenzialità
del territorio – si legge in un report dell'Ispra –, che non
necessariamente assume le forme di una maggiore estensione dei paesaggi
di tipo desertico”. Per l'Onu è il “degrado del territorio nelle zone
aride, semi aride e sub umide secche attribuibile a varie cause fra le
quali le variazioni climatiche e le attività umane”.
Questo processo rivela, inoltre, anche altri aspetti del territorio: nel mondo le aree siccitose coprono il 41% della superficie, ma il 72% delle terre aride ricade nei paesi in via di sviluppo (dati Cnr). In altri termini “la correlazione povertà-aridità – aveva sottolineato Mauro Centritto, direttore dell’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Cnr, nel corso di Expo 2015 – è dunque chiara”.
Questo processo rivela, inoltre, anche altri aspetti del territorio: nel mondo le aree siccitose coprono il 41% della superficie, ma il 72% delle terre aride ricade nei paesi in via di sviluppo (dati Cnr). In altri termini “la correlazione povertà-aridità – aveva sottolineato Mauro Centritto, direttore dell’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Cnr, nel corso di Expo 2015 – è dunque chiara”.
Forse non è un caso che proprio in Sicilia la desertificazione abbracci potenzialmente il 70% delle aree. È il dato più elevato tra le regioni italiane, eppure questa indicazione sembra del tutto estranea al dibattito politico attuale in vista delle elezioni.
Come si spinge un territorio verso la desertificazione? La povertà, ovviamente, non desertifica, ma la politica sì, perché l'assenza di controllo e gestione del territorio ha un peso determinante. Alle numerose cause naturali, come la scarsità delle piogge, l'erosione, la forte evapotraspirazione, che sottraggono umidità ai terreni e alla vegetazione, e alle altre legate alla struttura del suolo, come la morfologia, l'orografia e la litologia, ci sono, infatti, delle responsabilità precise che risiedono nelle attività antropiche e nei relativi impatti: agricoltura, zootecnia, gestione delle risorse idriche, incendi boschivi, industria, urbanizzazione, turismo, discariche, attività estrattive.
Si tratta di azioni che determinano “un uso competitivo delle risorse – spiegano dal ministero dell'Ambiente – con il conseguente sovrasfruttamento rispetto alle reali disponibilità”.
Analizzando queste dinamiche, capitolo per capitolo, scopriamo perché in Sicilia il 70% delle aree è a rischio desertificazione. Nel 2016 si sono registrati 841 incendi boschivi con 52 kmq di superficie boscata percorsa dal fuoco (161 quella totale, dati dell'ex Corpo forestale dello Stato), nel 2017 ce ne sono stati 118 kmq soltanto nelle aree protette tra gennaio e luglio, mentre la superficie totale si è spinta fino a 251 kmq (dati Legambiente). Il passare degli anni non risolve il problema, anzi, se possibile, lo esaspera e l'Isola continua a bruciare più che il resto d'Italia a fronte di una superficie boschiva limitata che copre meno del 15% del totale della superficie regionale.
“Gli incendi – scrivono dal ministero dell'Ambiente – determinano effetti negativi sulla composizione e sulla struttura delle comunità vegetali e animali e sulle proprietà fisico-chimiche del suolo, cambiando, ad esempio, la struttura del terreno rendendolo meno permeabile e, quindi, più esposto a processi erosivi”.
In campo c'è anche il processo di urbanizzazione senza controllo. In Sicilia, in queste ultime settimane, il dibattito sugli abusi insanabili e le demolizioni si è lievemente assopito, dopo la vicenda Cambiano, ma la realtà è che il cemento, legale e illegale, è la morte del suolo, perché ne determina l'impermeabilizzazione.
Gli ultimi dati Ispra, contenuti nel rapporto 2017, nominano la Sicilia come la Regione col maggiore incremento di consumo di suolo tra il 2015 e il 2016 (184 mila ettari, + 585 rispetto all'anno precedente, 7,16% il dato complessivo), e non sono risparmiate nemmeno le aree con vincolo sismico o idrogeologico.
A incidere ci sono anche le discariche e le attività estrattive. Queste ultime, soprattutto per il mancato risanamento ambientale, rappresentano una presenza consistente nell'Isola. Complessivamente ci sono 553 cave (431 attive, tra le quali 316 produttive, 122 non attive) e 6 miniere (2 attive nel 2014) che registrano una tendenza in contrazione per numero di attività, rispettivamente pari a -8,9% e -33,3%, così come nell'estrazione (-17,3% la quota di minerali estratti tra il 2014 e il 2013) ma i problemi legati alla loro permanenza restano irrisolti, soprattutto se andiamo a considerare gli elementi di pressione ambientale raccolti dall'Istat.
Sono tre gli indicatori principali che dovrebbero mettere in allarme:
l'estrazione in territori con aree protette, cioè quei comuni con
presenza di siti estrattivi attivi con quota di superficie sottoposta a
tutela ambientale maggiore del 40%, vede il coinvolgimento isolano del
20% dei comuni con una quantità di materiale estratto pari a un quinto
del totale isolano; l'indice di intensità differenziale di estrazione,
che confronta il livello medio di estrazione provinciale con quello
nazionale, vede quattro province isolane superare il livello nazionale
(Siracusa, Palermo, Agrigento e Ragusa); l'indicatore di intensità di
estrazione per comune misura il rapporto tra quantità totali estratte e
le relative superfici e registra una pattuglia nutrita di comuni isolani
tra i 152 nazionali nella fascia maggiormente coinvolta.
Il capitolo rifiuti è tristemente noto: alle difficoltà di avvio del sistema di riciclo si abbina l'assoluto dominio delle discariche che occupano il territorio e spesso lo inquinano: il caso più noto è quello di Mazzarà Sant'Andrea, il sito chiuso, sequestrato e mai messo in sicurezza che ha fatto registrare perdite di percolato. Ma anche quelle in regola occupano territorio improduttivamente, soprattutto se consideriamo che, ancora fino al 2015, smaltivano più dell'80% dei rifiuti urbani isolani all'anno, più di 2 milioni di tonnellate.
Siccità, non piove quasi più ma continuano gli sprechi
PALERMO – La combinazione tra siccità e cattiva gestione delle
risorse idriche è quanto di peggio possa esserci per alimentare la
desertificazione. E la Sicilia primeggia in entrambi gli ambiti. Nei
giorni scorsi il climatologo Massimiliano Fazzini, docente delle
Università di Camerino e Ferrara, ha ribadito, in una nota, che “durante
le future estati avremo sempre meno acqua e di peggiore qualità.
Regioni come Puglia, Sicilia e Sardegna dovranno mettere in campo
processi di desalinizzazione utilizzando così l'acqua del mare”.
Attualmente i prelievi regionali hanno toccato quota 714 milioni di acqua potabile (su un totale nazionale di 9,4 miliardi), nel 2014, avendo come fonte principale il pozzo (419 milioni di metri cubi), seguito dalla sorgente (169 milioni) e quindi dal bacino artificiale (113 milioni). Soltanto 6,8 milioni, seppur in crescita, dalla dissalazione delle acque marine, soltanto 4,6 milioni di metri cubi dai corsi d'acqua.
Intanto la disponibilità di acqua continua a contrarsi: l'Osservatorio delle acque regionale ha registrato il deficit pluviometrico che per il trimestre marzo-aprile-maggio ha superato in molte aree il 50% rispetto alla norma, mentre le 23 dighe isolane, in riferimento al mese di giugno, avevano invasato 436 milioni di metri cubi di acqua, circa 25 milioni in meno rispetto a maggio (461,98), e 80 milioni di metri cubi in meno (-16%) rispetto allo stesso mese dell'anno scorso.
A questo si abbinano, appunto, le perdite di rete, perché la poca acqua disponibile viene persino sprecata. Le perdite di rete siciliane isolane superano la media nazionale in sette comuni capoluogo su nove con Palermo, Catania, Messina e Agrigento che vanno oltre il 50% (dati Istat). È ancora Fazzini a spiegare la diversità di atteggiamento degli enti locali: “i comuni del Centro Nord hanno elaborato Piani di Adattamento ai Cambiamenti, mentre al Sud è tutto fermo. Giorni siccitosi aumentati del 15 per cento. Avremo eventi sempre più irregolari ”.
Attualmente i prelievi regionali hanno toccato quota 714 milioni di acqua potabile (su un totale nazionale di 9,4 miliardi), nel 2014, avendo come fonte principale il pozzo (419 milioni di metri cubi), seguito dalla sorgente (169 milioni) e quindi dal bacino artificiale (113 milioni). Soltanto 6,8 milioni, seppur in crescita, dalla dissalazione delle acque marine, soltanto 4,6 milioni di metri cubi dai corsi d'acqua.
Intanto la disponibilità di acqua continua a contrarsi: l'Osservatorio delle acque regionale ha registrato il deficit pluviometrico che per il trimestre marzo-aprile-maggio ha superato in molte aree il 50% rispetto alla norma, mentre le 23 dighe isolane, in riferimento al mese di giugno, avevano invasato 436 milioni di metri cubi di acqua, circa 25 milioni in meno rispetto a maggio (461,98), e 80 milioni di metri cubi in meno (-16%) rispetto allo stesso mese dell'anno scorso.
A questo si abbinano, appunto, le perdite di rete, perché la poca acqua disponibile viene persino sprecata. Le perdite di rete siciliane isolane superano la media nazionale in sette comuni capoluogo su nove con Palermo, Catania, Messina e Agrigento che vanno oltre il 50% (dati Istat). È ancora Fazzini a spiegare la diversità di atteggiamento degli enti locali: “i comuni del Centro Nord hanno elaborato Piani di Adattamento ai Cambiamenti, mentre al Sud è tutto fermo. Giorni siccitosi aumentati del 15 per cento. Avremo eventi sempre più irregolari ”.
Territorio povero e fragile. Cresce il rischio di frane
PALERMO – Un territorio povero e coperto dal cemento è un
territorio fragile, che non riesce a difendersi dal dissesto.
Soprattutto quando si trova di fronte alla presenza di piogge
torrenziali, come avviene sempre più spesso nel recente periodo. E la
Sicilia ne è pienamente coinvolta.
L'Ispra ha mappato circa 1.487 kmq con pericolosità da frana, e in questo blocco ci sono 234 kmq nella fascia “molto elevata”. In quest'area nel mirino del rischio ci sono quasi 115 mila persone, 25 mila nelle aree maggiormente coinvolte.
Il conteggio, tuttavia, non finisce qui. Altri 258 kmq si trovano nelle tre fasce del rischio idraulico, con 80 mila isolani direttamente coinvolti e 20 mila nella fascia più elevata. Analizzando più da vicino questi numeri, ricorrendo al nuovo servizio interattivo rilasciato dall'Istat (istat.it/it/mappa-rischi/indicatori), abbiamo monitorato il rischio naturale nei tre principali comuni dell'Isola.
A Palermo e provincia ci sono quasi 30 mila unità nelle due fasce più elevate di rischio da frana e nella più elevata per quello idraulico, altre 13 mila si trovano a Messina e provincia e poco meno di 8 mila nell'area etnea. Facendo un calcolo complessivo, ci sono 50 mila unità nel mirino del rischio idrogeologico.
Per Massimiliano Fazzini, docente universitario ed esponente dell’Associazione nazionale dei geomorfologi italiani, “alla resa dei conti aumenta il rischio idrogeologico e diminuisce la disponibilità della risorsa acqua fossile”.
L'Ispra ha mappato circa 1.487 kmq con pericolosità da frana, e in questo blocco ci sono 234 kmq nella fascia “molto elevata”. In quest'area nel mirino del rischio ci sono quasi 115 mila persone, 25 mila nelle aree maggiormente coinvolte.
Il conteggio, tuttavia, non finisce qui. Altri 258 kmq si trovano nelle tre fasce del rischio idraulico, con 80 mila isolani direttamente coinvolti e 20 mila nella fascia più elevata. Analizzando più da vicino questi numeri, ricorrendo al nuovo servizio interattivo rilasciato dall'Istat (istat.it/it/mappa-rischi/indicatori), abbiamo monitorato il rischio naturale nei tre principali comuni dell'Isola.
A Palermo e provincia ci sono quasi 30 mila unità nelle due fasce più elevate di rischio da frana e nella più elevata per quello idraulico, altre 13 mila si trovano a Messina e provincia e poco meno di 8 mila nell'area etnea. Facendo un calcolo complessivo, ci sono 50 mila unità nel mirino del rischio idrogeologico.
Per Massimiliano Fazzini, docente universitario ed esponente dell’Associazione nazionale dei geomorfologi italiani, “alla resa dei conti aumenta il rischio idrogeologico e diminuisce la disponibilità della risorsa acqua fossile”.
07 settembre 2017 - © RIPRODUZIONE RISERVATA
Fonte: www.qds.it
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