Sommersi dai No, divisi al proprio interno, incapaci di creare consenso. I dem si sono liquefatti.
di Accursio Sabella
PALERMO - Il segretario si affida al latino, il governatore perde ed è contento, gli assessori tacciono. E ancora, i deputati si leccano le ferite dopo la sconfitta del referendum e qualche politico “influente” suggerisce un dubbio: davvero non conta più nulla o è stata solo una recita? Di sicuro c'è che il Partito democratico in Sicilia non esiste più. Si è sciolto, svanito come l'immagine di una rottamazione trasformatasi nella ricerca dell'usato sicuro. E che brinda, dopo il referendum, solo nella sua "minoranza" che ha imboccato la strada giusta, quella del No. E rappresentata, tra gli altri, dall'ex governatore Angelo Capodicasa e dai deputati regionali Pino Apprendi e Mariella Maggio, oltre a un gruppo di militanti scontenti o legati storicamente alla Cgil. Anche il sindacato che una volta era linfa del partito, ha scelto di votare No.
Per il resto, il Pd non c'è più. Indebolito, più che rafforzato, dai nuovi acquisti che hanno solo creato fibrillazioni nuove in cambio di poco consenso. Sempre fragile, tra faide interne solo apparentemente sanate. L'immagine di un partito che ha smesso di essere tale, è la foto di alcune settimane fa che ritraeva, uno vicino all'altro, Mirello Crisafulli e Davide Faraone. È quella l'immagine della fine. La foto che certifica l'addio a ogni velleità del partito di dire qualcosa di nuovo davvero. Era, Crisafulli, il reietto della Leopolda, e Faraone il renziano di Sicilia che puntò il dito contro la sua Università rumena. Tutto sopito, c'era il referendum.
Ma la gente vede e provvede, davanti alla cabina elettorale. Anche perché, nel frattempo, in tanti avranno sentito uno strano brivido addosso, il giorno in cui, andando ad applaudire a Palermo non solo il premier, ma anche il segretario del Partito democratico, hanno dovuto accostarsi a gente dal passato variopinto. Ai nemici di ieri, oggi dentro casa.
È il Pd del trasformismo e dei cambiacasacca, ormai. E il segretario regionale dovrà prenderne atto. Accettando di guidare questa formazione ibrida e perdente, o di lasciarne le chiavi a qualcun altro, così come a Roma ha fatto il segretario nazionale. Non è troppo distante, infatti, il giorno in cui Fausto Raciti minacciò controlli a tappeto tra gli iscritti, per scovare i “cuffariani” (noti a tutti, del resto). E dello stesso periodo, in fondo, è la minaccia del premier di scendere in Sicilia col lanciafiamme. Un altro spot, quello. Perché nel frattempo, restavano tutti dentro.
A ingolfare le fila dei futuri sconfitti. Perché quella di domenica non è una semplice partita persa. È la fine di una idea politica. Anche in Sicilia. Dove il Pd ha straperso proprio in quel progetto, voluto anche e soprattutto dallo stesso segretario regionale, che prevedeva l'accordo con i moderati di Alfano e D'Alia, oltre all'ingresso in giunta dei “politici”. Ma il cambio di passo non c'è stato, ne' dal punto di vista dell'azione di governo né sotto quello dell'armonia, dell'unità di un partito sempre diviso. E impegnato ormai nelle battaglie territoriali, buone solo per puntare alle prossime elezioni, a una salvezza sempre più complicata. Un partito, per intenderci, che ha preferito disertare a lungo Sala d'Ercole nei giorni della visita di Renzi, ritardando in maniera pericolosa l'approvazione della manovra di assestamento. E che anche dopo il saluto del premier, a stento è riuscito a garantire un numero legale all'Ars.
E adesso quel gruppo parlamentare, insieme allo stesso Raciti e a Crocetta si vedranno oggi proprio a Palazzo dei Normanni. Per capire cosa è successo e soprattutto cosa potrebbe o dovrebbe accadere. Il governatore, dal canto suo, dopo aver fatto comizi e aver partecipato a manifestazioni per il Sì, ha fatto spallucce, facendo quasi intendere che la vittoria del No è una buona notizia anche per lui. Mentre il segretario si è affidato su Facebook a una citazione di Fedro, per commentare la debalce: “Musca in temone sedit et mulam increpans...” ha attaccato Raciti. Che suggerisce, pescando nel latino, di concentrarsi sui pericoli reali.
Quali sono? È difficile dirlo. Ma magari, il Pd di Renzi, un Pd che non c'è più potrebbe iniziare dai pericoli interni, presenti anche nell'Isola. Cioè dalla disaffezione nei territori dovuta ai "nuovi acquisti", sia a Catania (con i rampanti Sammartino e Sudano), sia a Trapani con l'arrivo di Paolo Ruggirello, sia a Ragusa con l'arrivo dell'ex berlusconiano Dipasquale, senza parlare della figura di una capogruppo come Alice Anselmo che non è stata nemmeno eletta col Pd; dalle tensioni legate alla spinta dei “quasi renziani” di Cardinale pronti a lanciare ai Dem-dem la loro sfida nelle prossime elezioni; e ancora, il Pd dovrà guardarsi da se stesso. Non governa, non legifera, litiga e non è capace nemmeno di creare consenso in Sicilia.
Di Crocetta si sapeva da tempo. Lo stesso ministro Delrio si è fatto scappare quella convinzione, a un convegno di poche settimane fa, proprio riguardo al referendum che si avvicinava: “Crocetta non sposta nemmeno i voti dei suoi”. Ma il governatore potrebbe essere in buona compagnia, ma in questo caso il dubbio è di altra natura. Possibile infatti che “campioni del consenso” come Antonello Cracolici e Giuseppe Lupo a Palermo, Luca Sammartino ed Enzo Bianco a Catania, Baldo Gucciardi nel Trapanese, Mirello Crisafulli nella “sua” Enna, solo per fare qualche esempio, non abbiano più la capacità di spostare il consenso, al punto da regalare alla Sicilia la “palma” di “terra del No”?
L'altra ipotesi è che quel consenso, nutrito in qualche caso dalle leve del comando offerte dall'esecutivo, dai rapporti stabili con alcuni settori (dalla Sanità alla Formazione), ci sia ancora. Ma che il Pd di Sicilia più che altrove abbia giocato a far perdere Renzi. O quantomeno si sia disinteressato al suo destino, nonostante i convegni, gli sms e le dichiarazioni a favore del Sì. O recitano, insomma, o politicamente non incidono più. Tertium non datur, direbbe Raciti.
06 Dicembre 2016
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