Dal sito qds.it
07 Novembre 2020
Prima puntata. Inauguriamo oggi questo spazio che vuole mantenere alta la guardia su tutto ciò che ruota attorno all’emergenza Coronavirus e ai provvedimenti conseguenti. Pioggia di Dpcm e tanta confusione. Tra famiglie e imprese in crisi gli approfittatori attendono alla finestra
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PALERMO – Zone gialle, arancioni e rosse, spostamenti nuovamente limitati, attività commerciali chiuse, coprifuoco e vita sociale ridotta all’essenziale. Con gli ultimi provvedimenti da parte del Governo nazionale, l’Italia sembra essere ripiombata nell’incubo di marzo e aprile scorsi, quando la gente cantava dai balconi e le famiglie facevano a turno per portare fuori il cane e avere in questo modo una scusa per mettere il naso fuori di casa.
Da allora a oggi, però, la situazione è molto cambiata. Il clima si è molto appesantito e c’è chi rischia davvero di morire non a causa del Coronavirus, ma di fame. Mentre ci si preparava a convivere con il virus, con il distanziamento, con le mascherine e a incontrare gli amici a piccoli gruppi, ecco infatti che il Paese è ripiombato nell’incubo lockdown (anche se ormai si evita di chiamarlo in questo modo). L’aumento dei contagi e la fragilità del nostro sistema sanitario hanno spinto il Governo nazionale a prendere provvedimenti sempre più rigidi, costringendo di fatto gli italiani a recuperare abitudini che si sperava potessero finire in soffitta per sempre.
Così, complice anche una classificazione dell’Isola come Zona Arancione – in questo caso non entreremo nel merito della decisione, l’abbiamo già fatto ieri – i siciliani da ieri stanno facendo i conti con coprifuoco, chiusura di bar e ristoranti, serrata dei centri commerciali nei giorni festivi e prefestivi, stop a piscine e palestre, nessuno spostamento, a meno di comprovate necessità, da un comune all’altro.
Una mazzata devastante nei confronti delle attività commerciali e degli imprenditori, convinti che i ristori promessi dal Governo non potranno mai compensare il tracollo vissuto negli ultimi mesi; l’ennesimo, amaro, boccone da mandar giù per tutto il resto della popolazione, costretta ad adeguarsi a un nuovo Dpcm a settimana e con tanta confusione.
Cresce così il timore che il pericolo reale dei prossimi mesi possa essere non soltanto il Covid-19, ma le conseguenze che disposizioni troppo rigide da parte dei governanti potrebbero produrre. Già abbiamo visto manifestazioni di piazza sfociate in atti di violenza – anche se è bene precisare come esse spesso siano utilizzate come scusa per chi cerca soltanto l’occasione di scendere in strada e dedicarsi ad atti di violenza insensata – e il timore che queste situazioni possano verificarsi ancora è tutt’altro che sopito.
La rabbia sociale, quella vera, quella di chi non riesce più a campare con il proprio onesto lavoro e non è più capace di portare in tavola qualcosa per la propria famiglia, non può essere ignorata ed è un aspetto di cui il Governo dovrebbe maggiormente tener conto, forse anche alla stregua dei vari dati sulla diffusione del Coronavirus nel nostro Paese.
Inoltre, una domanda sorge spontanea: chi è che in questa situazione ci guadagna qualcosa? E qui pensiamo subito al pericolo corruzione, uno dei mostri che continua a opprimere da decenni il nostro Paese. Come ha scritto il nostro direttore, Carlo Alberto Tregua, nell’editoriale pubblicato lo scorso 5 novembre in relazione al continuare a operare in uno stato di emergenza: “Potete immaginare cosa succede quando non vi sono più gare d’appalto (azzerando la concorrenza) e vengono meno i controlli delle Ragionerie di Stato e di Regioni, nonché quelli della Corte dei Conti. La tentazione del magna magna diventa inesorabile”.
Nelle situazioni di difficoltà, purtroppo è successo più volte nella storia del nostro Paese (ricorderete quanto accaduto in occasione della ricostruzione post terremoto de L’Aquila), gli avvoltoi tendono a prosperare e a mettersi in tasca quanto più possono. Non vorremmo trovarci, da qui a qualche anno, di fronte a un Covidgate (passateci questo termine ispirato al più famoso Watergate) in piena regola.
Che cosa fu lo scandalo Watergate
Quelle porte bloccate con lo scotch che costrinsero Nixon a dimettersi
Tutto iniziò con dei pezzetti di scotch, lasciati sulla serratura delle porte di alcune stanze del Watergate hotel di Washington affinché non si chiudessero. Un fatto strano, che attirò la curiosità di una guardia giurata e, di lì a qualche tempo, avrebbero spinto uno degli uomini più potenti del mondo, l’allora presidente degli Stati Uniti d’America, Richard Nixon, a presentare le proprie dimissioni.
Quella notte del 17 giugno del 1972 al Watergate hotel – da cui prese il nome lo scandalo che ormai viene ricordato come uno dei momenti più bui della storia politica degli Usa – innescò una serie di avvenimenti che nel giro di due anni avrebbero portato a un terremoto mai visto prima alla Casa Bianca.
Una vicenda divenuta addirittura leggenda anche grazie al film “Tutti gli uomini del presidente” (diretto da Alan J. Pakula e vincitore di quattro premi Oscar), che racconta come i giornalisti del Washington Post Carl Bernstein (Dustin Hoffman) e Bob Woodward (Robert Redford) furono capaci di scoprire l’abuso di potere compiuto da parte dell’Amministrazione Nixon, finalizzato a indebolire l’opposizione politica del Partito democratico e dei movimenti pacifisti che a quel tempo protestavano contro l’impegno militare degli Stati Uniti in Vietnam.
L’inchiesta avviata dal Washington Post e tutto ciò che ne seguì produssero un procedimento di impeachment alla Camera dei Deputati, che accosò apertamente Nixon di avere compiuto atti illegali. Tutto ciò spinse il presidente, rieletto per il suo secondo mandato, a lasciare la presidenza dopo un discorso alla televisione divenuto ormai celebre.
A seguito dello sandalo Watergate, Richard Nixon è tuttora l’unico presidente della storia degli Stati Uniti a essersi dimesso dall’incarico.
Se l’occasione fa l’uomo ladro, l’emergenza Coronavirus ha un rischio altissimo
Trasparency international è un’organizzazione internazionale non governativa che si occupa della corruzione, non soltanto politica. A inizio di quest’anno, il sodalizio ha pubblicato uno studio che confronta la percezione del fenomeno a livello mondiale. E i dati relativi al nostro Paese non lasciano tranquilli per il futuro.
L’Indice di percezione della corruzione 2019 (Corruption perceptions index, Cui) pubblicato da Transparency international vede infatti l’Italia al 51° posto nel mondo con 53 punti su 100, in crescita di un solo punto rispetto all’anno precedente ma comunque sotto la media europea (pari a 66 punti). “L’ultimo anno segna una decisa frenata rispetto ai precedenti” è stato scritto nel rapporto e i problemi strutturali all’interno del Paese restano ancora numerosi.
I fenomeni corruttivi, insomma, sono percepiti dagli italiani quasi come fisiologici. E questo non fa altro che incidere sul corretto sviluppo del tessuto della Pubblica amministrazione, dell’imprenditoria e dell’economia tutta.
Non ci sono dati certi, ma come affermato dall’ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, la stima secondo cui essa possa valere circa 60 miliardi l’anno è più che realistica.
Anche in Sicilia la situazione è grave: basti guardare ai fatti di cronaca che quasi quotidianamente sbattono corrotti e corruttori in prima pagina, in un gioco che non risparmia alcun settore: dalla sanità all’immigrazione, dai servizi sociali all’edilizia, dai rifiuti all’energia e chi più ne ha più ne metta.
Se l’occasione fa l’uomo ladro, non si può far altro che tremare al pensiero di come questa emergenza Covid possa far gola a chi aspetta la minima occasione per lucrare ai danni delle collettività. Ecco perché il rischio Covidgate ci sembra molto concreto e perché il Quotidiano di Sicilia continuerà ad approfondire e a scavare su questo tema, sempre alla ricerca della verità.
Fonte: qds.it
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