Mentre scriviamo, si profila in Sicilia una vittoria, sia pure di stretta misura, del candidato del Centro Destra alla carica di Governatore.
Grillo fallisce nell’impresa di conquistare una Regione e il Partito di Renzi crolla, nonostante l’appoggio di Orlando e malgrado il suo candidato fosse abbastanza presentabile, il che – data la scarsa stima di cui gode il Segretario – era già molto.
La storia della Sicilia, dall’inizio del processo unitario in avanti, può essere letta come una costante ricerca della autonomia, sullo sfondo però di una aspirazione mai sopita alla Indipendenza.
I Borbone, riparati sull’Isola sotto la protezione della flotta inglese di Nelson dapprima durante l’invasione “giacobina” e la Repubblica Partenopea del 1799, e poi quando Napoleone aveva installato nel Regno il Vice Re Gioacchino Murat, erano ben consci di quanto i Siciliani aspirassero a distaccarsi dal loro dominio.
Gli isolani erano esonerati dal servizio militare, in linea di principio obbligatorio per i sudditi continentali, in quanto si riteneva più prudente mantenerli disarmati.
La stessa denominazione di “Regno delle Due Sicilie, Citra et Ultra”, cioè al di qua e al di là dello Stretto, fu un atto di piaggeria verso dei sudditi che la Casa Regnante sapeva essere indocili e fondamentalmente infedeli.
Nelson venne ripagato dei servizi resi alla Corona con la famosa “Ducea” che impiantò in Sicilia, in qualità di nuovi feudatari, i suoi eredi.
La strage di Bronte, ordinata da Nino Bixio, costituì la reazione del nuovo Stato italiano, non ancora ufficialmente proclamato, alla occupazione delle proprietà britanniche da parte dei contadini: il luogotenente di Garibaldi, ben più avveduto del suo capo, sapeva benissimo che dall’appoggio inglese dipendeva l’esito o il disastro della spedizione dei Mille, e in quel momento Napoli era ancora lontana.
A suo tempo, Re Ferdinando II era giunto ai ferri corti con i Britannici sul controllo del commercio dello zolfo, che in quell’epoca costituiva l’equivalente di quanto è oggi il petrolio: il Borbone, temendo un’azione di forza della flotta inglese contro il suo Regno, fece fortificare il Golfo di Napoli.
Se questa contesa si concluse alla fine pacificamente, ebbe invece un esito tragico la rivolta dei Siciliani iniziata nel 1947: prestando attenzione alle date, vediamo come la richiesta di indipendenza degli abitanti dell’isola, che iniziò con la ricostituzione del più antico parlamento d’Europa sotto la presidenza di Ruggero Settimo, precedette di un anno le diverse rivoluzioni che infiammarono l’Europa l’anno successivo, dalla Francia all’Ungheria, per non parlare dell’Italia, ove iniziarono le cosiddette “Guerre di Indipendenza”.
In quello che per generazioni sarebbe stato ricordato come “anno dei portenti”, due Regioni d’Italia si ricostituirono in Stati indipendenti, senza che vi si manifestasse alcuna propensione all’annessione al Piemonte: l’ex Repubblica di Venezia, risorta sotto la guida di Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, e appunto la Sicilia.
Oggi, a distanza di quasi due secoli, sono di nuovo queste le due Regioni dove più forte si manifesta una tendenza centrifuga rispetto allo Stato unitario.
Il Borbone represse i Siciliani con una campagna militare che culminò nel bombardamento di Messina, per cui Ferdinando II passò alla storia con il soprannome poco benevolo di “Re Bomba”: fu comunque la sua morte prematura ad offrire al Piemonte l’occasione di impadronirsi del Regno, ereditato dal meno energico Francesco II.
L’adesione popolare all’impresa di Garibaldi, con l’insurrezione dei “Picciotti” contro l’esercito napoletano, fu considerata dal popolo come l’occasione per liberarsi da un dominio straniero, quale veniva considerato quello dei Borbone – Napoli.
Quando ci si accorse che la Sicilia era ricaduta in un’altra e peggiore sottomissione, l’Isola insorse di nuovo nel 1867: un episodio omesso in tutti i libri di storia, e solo fugacemente accennato nell’opera di Pirandello come un’epoca di torbidi e di anarchia.
Questo evento fu completamente diverso e scollegato rispetto alla resistenza popolare dei fautori dell’antico Stato napoletano che si accese sul continente, il cosiddetto “brigantaggio”: la Sicilia non voleva dipendere né da Napoli, né da Torino, ma ambiva all’Indipendenza.
Proprio per questo motivo l’Isola fu l’unica Regione a sollevarsi in armi contro lo Stato italiano nel periodo che va dal 1944 al 1950, segnato dalle gesta del “bandito” Salvatore Giuliano, tacciato di essere un comune delinquente: eppure anche una buona parte dell’intellettualità isolana simpatizzò con il suo “Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana”
Il movimento insurrezionale venne dapprima sostenuto dagli Americani, che volevano assicurarsi comunque il controllo dell’Isola nel caso i Sovietici fossero arrivati per primi ad occupare l’Italia Settentrionale, e fu scaricato dal Governo di Washington una volta acquisito il controllo di tutto il Paese.
L’archivio di Giuliano venne portato in America ed usato come lasciapassare per ottenervi asilo dalla vedova, che da allora risiedette negli Stati Uniti insieme con un misterioso figlio postumo del “Re di Montelepre”: pare i documenti contengano la prova di rapporti intercorsi tra il marito e diverse Autorità civili e religiose (l’Arcivescovo di Palermo venne tenuto segretamente in ostaggio per un certo tempo dal “bandito”).
E’ comunque probabile che con queste carte il Governo di Washington abbia ricattato a lungo i suoi nuovi sudditi di Roma.
La concessione dell’autonomia – la più ampia di cui goda una Regione in Italia – risale al 1946, e dunque precede l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica, costituendo un tentativo dello Stato di placare l’indipendentismo con lo “statuto speciale”, nonché con una sezione distaccata della Corte dei Conti, incaricata di valutare con criteri di favore l’attività amministrativa svolta a Palazzo dei Normanni.
L’aneddotica sulle spese della Regione è sterminata, dai “Forestali” più numerosi degli alberi agli incaricati di spalare la neve per le vie di Palermo nel mese di luglio: l’accumulo è tale da costringere gli incaricati ad un lavoro straordinario.
Questo è comunque il prezzo pagato dallo Stato affinché non si ripeta il 1867, o riappaia il fantasma di Salvatore Giuliano.
Tramontato il sogno indipendentista, l’anomalia siciliana si manifestò in forme politiche negli anni Cinquanta con il “milazzismo”, così chiamato dal nome di un Presidente della Regione democristiano – per l’appunto l’Onorevole Milazzo – eletto con una maggioranza anomala e trasversale, comprendente i dissidenti del suo Partito, i neofascisti ed i comunisti.
E’ da notare come i dirigenti delle Botteghe Oscure, che si presentavano come depositari e custodi dell’antifascismo, incoraggiassero questa anomalia: nella logica del “tanto peggio, tanto meglio” che ispirava la linea del Partito, anche le alleanze più spregiudicate – se stipulate in funzione antigovernativa – potevano andar bene.
Ora siamo giunti all’elezione di un Presidente la cui principale caratteristica consiste nel permanere fedele all’ideale neofascista, nel nome del quale iniziò la sua carriera politica affrontando il rappresentante della Destra moderata, tale Mangiameli, in uno storico “derby” per la Presidenza della Provincia di Catania.
Chi rimane dichiaratamente fascista di certo risulta più dignitoso e coerente rispetto a quanti cercano di costruire la loro carriera sulle abiure: vedi il caso di Fini, satireggiato da Cossiga quando in occasione del famoso pellegrinaggio a Gerusalemme insinuò che si era fatto circoncidere.
Sul permanere di un orgoglioso richiamo al fascismo e a Mussolini da parte di certo meridionalismo “di destra”, abbiamo avuto modo di confrontarci con gli esponenti di questa corrente politica.
Il “Duce” – questa era la nostra osservazione – aveva accentuato il centralismo dello Stato rispetto al periodo liberale: perché dunque dei patrioti meridionalisti – l’osservazione era diretta ai neoborbonici napoletani, ma vale anche per Musumeci – si rifanno al suo Regime?
La risposta fu allora – e probabilmente sarebbe uguale se potessimo dialogare con il nuovo Presidente della Sicilia – che Mussolini concepiva l’Italia come contrapposta all’influenza anglosassone: alla quale si fa risalire tanto la conquista piemontese del Meridione come l’attuale condizione di sottomissione agli Stati Uniti.
Vale la pena ricordare che il siciliano Craxi si contrappose a Washington proprio sul suolo dell’Isola, precisamente a Sigonella, ricevendo il plauso di un arco di forze politiche “trasversale” che univa i sovranisti di destra e di sinistra.
Il futuro dirà se e in quale misura la prosecuzione di questa tendenza determinerà una accentuazione delle pulsioni nazionalistiche, o non piuttosto un orientamento indipendentista nelle diverse Regioni.
Nella Destra, unita intorno a Musumeci, sono rappresentate ambedue queste anime, ma la base che lo ha eletto è naturalmente siciliana, e con probabilmente connotata da un forte autonomismo: la stessa tendenza che qualche anno fa ha spinto il suo predecessore Lombardo a premiare pubblicamente, quali benemeriti patrioti, i superstiti dell’Esercito Volontario per la Liberazione della Sicilia; tra i vari movimenti che hanno sostenuto Musumeci ce n’è comunque uno dichiaratamente indipendentista.
Per concludere questa parte del nostro discorso, posiamo rilevare come la Destra riesca – dal Nord al Sud – ad interpretare le tendenze identitarie che si manifestano nelle diverse parti del Paese.
Nell’immediato, questo consenso sarà usato per mettere in ulteriore difficoltà Gentiloni e Renzi, ma in futuro – superate le attuali contingenze politiche – il movimento ora agli inizi può essere sintomo di una cariocinesi dello Stato unitario.
E’ comunque molto improbabile – come abbiamo già notato – che l’attuale classe dirigente sia in grado di riscrivere la Costituzione in senso federalista: la “riforma” proposta da Renzi prevedeva anzi una diminuzione delle competenze riservate alle Regioni; l’uomo di Rignano sull’Arno potrebbe gemellarsi con Rajoy.
Quanto a Grillo, anche se si conferma la tendenza alla crescita dei consensi del suo Movimento, la mancata conquista della Sicilia potrebbe segnare l’inizio di un riflusso.
I “Pentastellati” hanno conquistato la prima Capitale e quella attuale dell’Italia unita: due città importantissime, accomunate però dalla mancanza di una tradizione municipale; Torino fu sede della Corte sabauda e Roma della Corte pontificia, per cui la mancanza di una identità civica, aggravata da una immigrazione massiccia e disordinata, ha privato entrambe di una vocazione specifica.
Forse Torino e Roma ritroverebbero una loro identità se tornassero i Savoia, e se tornasse il Papa – Re: si tratta un paradosso, ma c’è chi l’ha formulato prima di noi e con molta più autorevolezza.
Nel frattempo, le due donne – Sindaco, caratterizzate dall’infima statura politica, comune d’altronde loro compagni di partito di sesso maschile, stanno aggravando un disastro urbano che riflette lo sfascio civile di entrambe le metropoli.
Il fatto che i seguaci di Grillo vincano dovunque, ma nel contempo non vincano in alcun posto – Roma e Torino sono ridotte ridotte a non – luoghi privi di identità – li estrania dall’attuale “zeit geist”, li riduce ad un ruolo di mera protesta, senza che alla parte “destruens” del loro messaggio si associ una parte “costruens”.
Se Grillo perde in Sicilia, dove i motivi del malcontento sono i più esasperati ed evidenti, difficilmente potrà prevalere altrove.
Rimane da parlare di Renzi, e qui verrebbe da dire che “de minimis non curat Praetor”: l’uomo pare destinato ad un ruolo ancora più folcloristico di quello di Grillo, il che è tutto dire.
Ovunque si era profilato nel suo Partito un buon amministratore, o comunque un personaggio in grado di acquisire consensi, fosse Doria a Genova o Marino a Roma, Pisapia a Milano o Crocetta in Sicilia, il “rottamatore” ha compiuto egregiamente nei loro confronti il proprio lavoro: che viceversa risparmia i rappresentanti dei veri “poteri forti”.
Gli resistono i grandi Governatori del Meridione continentale, i quali hanno avuto l’accortezza di crearsi una propria base, in gradi di difenderli da ogni tentativo di defenestrazione orchestrato dal “giglio Magico”.
Le sparate demagogiche contro l’Unione Europea e la Banca d’Italia suonano ridicole in bocca a chi deve le proprie fortune alle grandi banche d’affari: mentre le sezioni democratiche, ormai vuote di militanti, vengono sfrattate per morosità, qualche centinaio di privilegiati godono dell’ospitalità di lusso riservata agli ospiti delle “Leopolde”; i quali compongono una specie di Bilderberg della povera gente a confronto con quella vera, dove almeno i partecipanti pagano le spese.
Il Partito Democratico, quello di derivazione comunista, avrebbe potuto almeno ritagliarsi un ruolo di forza politica regionale nelle zone dette un tempo “rosse”, dove però va a votare ormai ancor meno gente che in Sicilia.
Neanche quest’ultima linea di resistenza ha tenuto: l’unica preoccupazione che assilla i dirigenti delle “Coop”, che poi sono anagraficamente le stesse persone responsabili delle strutture territoriali democratiche, consiste nel trovare qualcuno disposto ad accollarsi i loro debiti: il Congresso della Federazione di Bologna, un tempo suprema occasione dei fasti del Partito, è finito come una litigiosa assemblea di condominio.
L’impresa che attende i gerarchi emiliani risulta dunque oltremodo ardua, ed è comunque già fallita nelle estensioni periferiche de loro dominio: la Liguria è ormai saldamente controllata da berlusconiani e leghisti.
A ben guardare, il dominio renziano si stava restringendo alle zone dove meno forte era l’identità regionale, ma l’incapacità dell’ex Sindaco e dei suoi cortigiani di concepire un progetto per la Nazione ha determinato un’erosione anche dei vecchi domini: i Comuni della Toscana cadono uno ad uno, e la Destra compie l’impresa che non riuscì ad Annibale, cui le Città dell’Etruria chiusero le porte.
Qualche sprovveduto aveva previsto per oggi, acquisito il risultato della Sicilia, un “venticinque luglio” di Renzi: quello di Mussolini venne precisamente dopo che l’Isola era stata perduta.
Non c’è però al Nazareno nessun Dino Grandi, il quale comunque si recò alla fatidica riunione di Palazzo Venezia con due bombe a mano in tasca: se la Milizia avesse tentato di arrestarlo, il “Conte di Mordano” si sarebbe fatto saltare in aria.
Non vediamo assolutamente i vari Orfini e Rosato all’altezza di un simile ruolo: che un organo composto da cortigiani del Capo, scelti per il loro ossequio alla sua persona, gli si possa rivoltare contro è una pia illusione.
Il Partito Socialista perì sotto le macerie del craxismo, e lo stesso succederà con il Partito Democratico.
Per una volta vede giusto il vecchio Eugenio Scalfari, che annunzia la successione a sé stesso del Conte Gentiloni Silverj da Tolentino, come succedeva al tempo del Regno con il Marchese Starabba di Rudinì; questa volta, però, l’aristocratico marchigiano verrebbe chiamato a guidare un Governo istituzionale: l’ombra del Maresciallo Badoglio si allunga minacciosa sul Nazareno.
Mario Castellano
Fonte: www.farodiroma.it
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