di Marzio G. Mian
MILANO – Le giubbe grigie sono di casa come i camosci nella valle di Rochemolles. Siamo saliti da Bardonecchia per la provinciale 235, ridotta a una mulattiera. È ingombra di trenta centimetri di neve prematura caduta nella notte; le fronde ancora verdi dei faggi, colte a tradimento, hanno ceduto al peso e ostruiscono il passaggio. I forestali scendono dalla camionetta, menano fendenti di machete e i rami alleggeriti schizzano a molla come le trappole dei vietcong. I nove abitanti di Rochemolles li accolgono da liberatori, la signora Annalisa quasi li abbraccia, «Se aspettavamo quelli della provincia…» In realtà l’agente Stefano Capobianco aveva chiamato la sala operativa via radio e si sente lo spazzaneve che pompa su per i tornanti. «Tutto a posto Piero?» Piero risponde all’appello, scambia qualche battuta in una lingua strana, il patois provenzale, uno dei dialetti gallo romanzi che discendono dai trobadori e che hanno accomunato per secoli gli alpigiani dai Pirenei alla Valle d’Aosta, a prescindere dai trattati, dalle guerre e dai confini. Il vice ispettore Mauro Peirolo che è autoctono della Val Susa chiede se si sono sentite schioppettate, queste nevicate precoci confondono gli animali ed eccitano i bracconieri; non è da molto che hanno arrestato proprio laggiù, nel canalone sotto il Pierre Menue, quel professionista torine se e suo figlio beccati sul fatto con i fucili silenziati, le matricole abrase e il camoscio ancora caldo. Si capisce che questi uomini sono l’unico tramite tra gli ultimi mohicani della montagna e la montagna stessa: «Rochemolles è storicamente a rischio frane, lo dice anche il nome, e noi controlliamo continuamente, vuol dire scarponare per ore, intercettare piccoli segnali, non sono cose che puoi fare in ufficio», dice il vicesovrintendente Roberto Corti, occhi che ricordano quelli del “collega” Terence Hill.
CANNOCCHIALI CONTRO GPS
A seguirli nella luce opalina che avvolge il villaggio, mentre camminano quasi con pudore tra le case di sasso in uno scalpiccìo di passi nella neve fresca, sembra di stare dentro
un’illustrazione di Achille Beltrame o nel Segreto del Bosco Vecchio di Dino Buzzati; si prova tutta la malinconia autunnale della fine di un mondo. Perché il Corpo Forestale dello Stato, dopo 194 anni da quando fu costituito dai montanari Savoia, con il prossimo gennaio cesserà d’esistere. E l’impressione (o il maggiore timore) è che, con la scomparsa delle giubbe grigie, possa essere lo Stato stesso a compiere un’ulteriore ritirata da territori sempre più abbandonati, disabitati, inselvatichiti. Vista da queste valli di confine, dai borghi più remoti,dalle boscaglie impenetrabili di un’Italia che sfuggea i radar della modernità, la decisione d’accorpare i nemmeno ottomila uomini della Forestale nel corpaccione di oltre centomila Carabinieri è dura da digerire. «Non è questione di nostalgia. Questo decreto avrà conseguenze gravi», dice il sindaco di Bardonecchia, Francesco Avato: «È il dominio del pensiero metropolitano che ritiene l’esperienza sul campo, la conoscenza diretta dell’ambiente, armamentari ormai anacronistici, roba ottocentesca. Pensano che basti un Gps per sostituire questi uomini». E loro, forse già usi a obbedir tacendo, sono molto attenti a non esprimere giudizi, il momento è delicato, ci sono tensioni ai livelli alti, soprattutto per la loro trasformazione da agenti civili in militari (con tanto di corso accelerato). Si limitano agli esempi. Bisogna usare il cannocchiale, la loro tecnologia più avanzata: «Vede quella parete di roccia a strapiombo? Ecco, se non era per la nostra esperienza nessuno avrebbe smascherato una truffa milionaria. Alcuni allevatori avevano già ottenuto finanziamenti europei dichiarando di pascolare un centinaio di mucche in un’area proibitiva anche per gli stambecchi. A Torino avevano dato l’ok basandosi su foto satellitari. La Guardia di Finanza ha ringraziato; ragazzi, ci
fanno, se non ci foste voi altri…».
Tagli e benefici, è lo slogan della riforma targata Renzi-Madia. «Lo
spacchettamento delle competenze del corpo forestale», fanno sapere dal
ministero della Funzione pubblica, titolare del decreto attuativo,
«porterà risparmi ed efficienza, un comando unico per la tutela
forestale ambientale e agroalimentare». «Sarà la polizia ambientale più
forte d’Europa», dice il ministro delle Politiche agricole Maurizio
Martina. Il Sapaf, sindacato dei forestali, ci mostra qualche cifra. Nel
primo anno il risparmio sarà di 5,7 milioni di euro, a fronte di una
spesa iniziale di 1,4 milioni per cambio divise, mezzi da
re-immatricolare, adeguamento telematico; nel 2018 il risparmio sarà di
12 milioni. Ma la riforma non tocca le regioni e gli “operai forestali”
che nulla hanno a che fare con il Corpo: la Calabria, con i suoi
cinquemila assunti ha speso nel 2016 venti milioni, mentre i 28 mila
operatori siciliani costano allo Stato 250 milioni l’anno (dati della
Corte dei Conti). La domanda che si fanno in tanti, non solo qui in Val
Susa, ma anche sull’Appennino, nel Caserta no e in tante procure è come i
“nuovi forestali” potranno fare quello che fanno annacquati in un’Arma
così grande: solo quest’anno su 23 mila operazioni per reati ambientali
circa 10 mila sono state svolte dal Corpo. Franco Gabrielli, capo della
Polizia, parla di «scelta infelice». «La forza del nostro sistema è la
diversità, l’efficienza non si ottiene attraverso una mera
semplificazione ragionieristica», dice. Un j’accuse, quello del
procuratore capo della Direzione nazionale antimafia Franco Roberti:
«Sarà come togliere all’autorità giudiziaria l’unico organismo
investigativo in materia ambientale che dispone delle conoscenze, del
know-how e anche dei mezzi. L’accorpamento potrebbe compromettere la
capacità investigativa di questo Corpo».
FRATELLO LUPO
FRATELLO LUPO
Nelle valli di confine ancora non ci credono. «Le foreste avanzano e anziché pulire e selezionare segano la Forestale», dice il pittore e scultore Bruno Blanc nella sua bottega di Bardonecchia, ritrovo di bastian contrari: «L’Italia è dominata dal pensiero piatto,cioè di pianura; anche se ormai un terzo del Paese è coperto da foreste, 11 milioni di ettari. Si riprendono lo spazio liberato dagli uomini in fuga, perché la montagna ha perso un milione di abitanti in 50 anni». È un censimento prodotto proprio dalle giubbe grigie in primavera: più 6 per cento di bosco dal 2005, 13 miliardi di alberi (che paradossalmente è anche una buona notizia perché ci fanno risparmiare due miliard idi euro di sanzioni per le emissioni di gas serra). Quattro cani, frazioni divorate dalla wilderness che avanza, le Alpi sono tornate ad essere come due secoli fa, un mondo a misura di lupo: giunto per dispersione dagli Appennini negli anni Novanta, ora se ne contano circa duecento esemplari distribuiti sull’arco alpino, soprattutto piemontese. Una crescita dell’11 per cento l’anno secondo Science, che ha pubblicato i dati di Francesca Marucco, 41 anni, zoologa ritenuta tra i maggiori esperti di grandi carnivori al mondo, coordinatrice in Piemonte del “Progetto Lupo” che ha fatto scuola fino nel Montana per il livello raggiunto di convivenza tra il predatore e l’uomo contemporaneo, allevatore, montanaro o turista che sia. Un successo che ha indotto l’Unione europea a finanziare con sette milioni di euro un programma transfrontaliero che riguarda tutte le nazioni dell’arco alpino, il Life Wolf Alps. Francesca è il punto di riferimento di uno squadrone di duecento persone: «Gli amici della Forestale sono la colonna, non so ora come faremo a continuare con il censimento e le operazioni anti bracconaggio,solo qui in due anni hanno scoperto 21 casi di avvelenamento», dice dal Centro faunistico Uomini e Lupi a Entracque in Val Gesso, dove guida una équipe di giovani studiose e dove sorge anche il centro didattico Uomini e Lupi che accoglie oltre 25 mila visitatori l’anno. La chiamano “economia del lupo”. Che gioca anche sulle provocazioni: sotto il marchio “Terre da Lupi” il centro ha lanciato una catena di prodotti ovini delle Alpi sulla cui confezione compare il muso del nemico atavico. Esopo e Fedro oggi dovrebbero cambiare repertorio. «Molti allevatori hanno capito che dove c’è il lupo c’è biodiversità, un ambiente migliore anche per le pecore, basta adottare le giuste precauzioni e protezioni», dice Francesca.
Lo Stato smobilita, i lupi godono di ottima stampa e nelle valli di confine piemonte si gli unici giovani sono clandestini in attesa di valicare; le malghe abbandonate diventano spesso area di posta attrezzate dai passeur. Di là, la Francia respinge lo straniero e Parigi pianifica l’economia di montagna: solo in Val Maurienne in Savoia in cinque anni sono state sovvenzionate venti nuove aziende agroalimentari gestite da under 35. Che fare, allora? Dacia Maraini,
osservando lo stato delle montagne abruzzesi, ha proposto sul Corriere di far rivivere i borghi in rovina affidandoli ai migranti, visto che non sono bene accetti nei centri abitati dove vengono destinati. Da due emergenze una possibile soluzione. Eppure ci sono altre storie sopra i mille metri. La Valle Stura, enclave occitana nell’alto Cuneese, si reggeva un tempo sulla coltivazione della lavanda, l’isòp. Poi un lento dissanguamento. Fino alla scoperta dell’acqua. L’azienda Sant’Anna di Vinadio produce otto milioni di bottiglie al giorno e con le nuove linee in costruzione punta a venti milioni; con l’indotto quest’acqua dà da mangiare a oltre 1.500 persone nella valle, dove hanno riaperto alberghi e ristoranti, pompe di benzina e alimentari. Difficile vedere una casa abbandonata. Con trecento milioni di fatturato è la prima azienda in Italia e nel mondo nel mercato delle acque minerali. «Ci chiamano la Fiat dello Stura», dice il torinese Alberto Bertone, presidente e amministratore delegato, «ma il mio modello è la visione comunitaria di AdrianoOlivetti».
NOSTALGIA DELLA FRONTIERA
@CorriereSociale
17 Novembre 2016
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