27 novembre 2015

LA REGIONE NEL BARATRO. SICILIA SENZA GOVERNO, SENZA LEGGI, SENZA SOLDI. A CHI DI QUESTI CHIEDEREMO IL CONTO?


LA REGIONE NEL BARATRO

Sicilia senza governo, senza leggi, senza soldi.
A chi di questi chiederemo il conto?




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Pochi giorni fa la giunta ha chiesto un prestito: in cassa non c'è più un euro nemmeno per le spese obbligatorie. E' uno dei segnali del disastro. L'Ars intanto non legifera per le liti tra partiti. La Sicilia è paralizzata. Di chi è la colpa? Di Crocetta, del Pd siciliano di Raciti o del governo romano rappresentato da Faraone?

PALERMO - Il governo non governa. Il Pd in Sicilia litiga e a Roma gioca a fare “il diverso”. Intanto, l'Isola è alla paralisi da mesi. Un immobilismo che rischia di trasformarsi in dramma, per migliaia di siciliani. Non c’è ancora un bilancio. E a dire il vero non c’è nemmeno una “commissione bilancio” nel pieno delle sue funzioni. L’ultimo assessore nominato è sempre il penultimo. Mentre non si riesce a discutere una legge, una sola, perché i deputati si stanno giocando a dadi le poltrone.
 
Non c'è più un euro in cassa

La Sicilia è alla canna del gas. E a metterlo nero su bianco è lo stesso governo regionale. Una settimana fa, infatti, la giunta ha deciso di chiedere al Cassiere regionale, cioè l'Unicredit, una “anticipazione di cassa”. Un prestito, in pratica. Per mettere una pezza su una falla enorme. La Regione infatti non ha più in cassa i soldi necessari per le spese obbligatorie. Cioè stipendi, utenze, funzionamento degli enti. Non solo. Le somme attualmente appostate nel Fondo di cassa, al 31 ottobre, non bastano nemmeno per la compartecipazione alla spesa dei Fondi europei. E lo scarto tra i soldi disponibili e quelli che servirebbero non è da poco. Mentre nel Fondo attualmente sono presenti 928 milioni, “le richieste di pagamento provenienti dai vari rami dell'Amministrazione regionale per le spese obbligatorie e per le spese comunitarie – si legge nella delibera di giunta dello scorso 20 novembre – ammontano in atto a circa 1,75 miliardi”. Il doppio. Mancano oltre ottocento milioni di euro in cassa. Così, ecco la necessità di chiedere un prestito. Che però potrà colmare solo una piccola parte di quel divario. La legge e la convenzione che disciplinano infatti i rapporti con l'Unicredit, consentiranno alla Regione di chiedere non più di 270 milioni. E il resto? Dall'assessorato all'Economia spiegano che una parte di quelle somme verrà colmata da trasferimenti statali che erano stati temporaneamente bloccati. Inoltre il reale ammontare di quelle spese obbligatorie sarebbe molto inferiore a causa del patto di stabilità. Per farla breve, però, la Regione è senza soldi.


Un governo che non governa

Un quadro deprimente, quello dei conti, che si aggiunge allo sfacelo di un governo giunto al quarantaduesimo assessore, a quello di un'Assemblea incapace di legiferare, di una maggioranza litigiosa che ha portato l'Isola alla paralisi. Così, dire che tutto sia imputabile a Rosario Crocetta adesso non basta più. La Sicilia allo sfascio, oggi, è in mano a tre “entità” incarnate nel governatore gelese, nel segretario del Pd Fausto Raciti, nel sottosegretario siciliano Davide Faraone. Di chi è la responsabilità di questo caos? O, rigirando la domanda, c’è uno tra i tre che può sentirsi immune dalla colpa?

È stato lo stesso governatore ad ammettere a Livesicilia: “Per formare la nuova giunta abbiamo dovuto discutere per 120 giorni. Credo sia sufficiente”. Lo è, eccome. Anche perché quella giunta è stata la quarta in tre anni. E ha consentito di sfondare il tetto dei quaranta assessori. Numeri mai visti prima. Ovviamente, la formazione del nuovo esecutivo è stata accompagnata dalla solita retorica: “Questa volta faremo le riforme. Non c’è più tempo da perdere. È la svolta”. Il mantra che ha fatto da sottofondo a questi tre anni di legislatura. Anni accompagnati dagli slogan sterili del presidente. Il fuoco della sua rivoluzione è stato subito spento da una incapacità amministrativa che non ha risparmiato un settore. E il risultato è sotto gli occhi di tutti. Mentre un colpo dopo l'altro, è stata fortemente scalfita persino la portata della svolta legalitaria e della rottura col passato. Concetti smentiti da chi, in questi anni, è stato tra i più stretti collaboratori, in giunta o attorno a essa, dello stesso Crocetta.

 
Il caos del Pd siciliano

Ma il governatore, alla fine, si è trovato in ottima compagnia. Perché i partiti che gli stanno accanto, e in particolare il più grande partito di maggioranza, hanno finito per fornire a Crocetta un alibi per il suo fallimento. Un insuccesso amministrativo che adesso necessariamente pesa anche sulle spalle del Partito democratico. E non da quindici giorni, da quando cioè alcuni deputati democratici hanno deciso di entrare nell'esecutivo, ma fin dall'inizio. Perché il Pd è sempre stato dentro il governo Crocetta. Anche sotto le mentite spoglie di tecnici fin troppo chiaramente riferibili alla politica. Un Pd che ha iniziato a litigare fin da subito, addirittura chiedendo – il segretario era ancora Giuseppe Lupo – agli assessori democratici di uscire dal governo. E ha proseguito dopo. Con faide continue. Che hanno portato prima un pezzo di partito fuori, poi di nuovo dentro il governo. Mentre i rimpasti si alternavano come se fosse un gioco. Un gioco di quote e correnti. Di bilancini e contrappesi. Gli stessi che hanno spinto dapprima il segretario del Pd a sconfessare l'ultimo governo di Crocetta, fresco di nomina, e poi l'intero partito ad arenarsi per la scelta del capogruppo. Trascinando nell'incapacità di decidere, tutta l'Assemblea regionale. Cioè la Sicilia. E così, se a Raciti non possono essere attribuite responsabilità personali, certamente molto si può dire sull'attività di un segretario che solo in parte e solo a momenti è riuscito a dare una unità a un partito che – è giusto precisarlo – sembra ingovernabile per natura.

 
Il “doppio gioco” del Pd nazionale

Anche perché oggi di partiti democratici ne esistono due. Uno in Sicilia, e uno a Roma. Rappresentato, quest'ultimo, dal sottosegretario Davide Faraone che in questi anni ha recitato il classico ruolo del politico di lotta e di governo. Tra ultimatum che diventavano penultimatum, e decaloghi a cui è seguito poco o nulla, l'area che fa capo al sottosegretario ha attaccato violentemente e a più riprese il governo Crocetta. Parlando apertamente di elezioni anticipate, di governo dalla scarsa credibilità, di Sicilia che non va al ritmo di Roma. Una delegittimazione, però, che fa a pugni con un dato di fatto: l'area che fa capo al sottosegretario non ha mai, nemmeno per un minuto, mollato le poltrone della giunta di Crocetta. Né tantomeno quelle degli uffici di gabinetto degli assessori. Una contraddizione palesata anche in altri casi. In occasione di altre critiche. Come quelle riguardanti, ad esempio, l'utilizzo da parte del governo siciliano delle somme per gli investimenti per coprire la spesa corrente. Peccato che proprio il governo nazionale, pochi mesi prima, avesse deciso di riprendersi centinaia di milioni di euro di ex Fondi Pac destinati proprio alle infrastrutture, per finanziare sgravi fiscali che interesseranno soprattutto le Regioni del Nord. Una forzatura per un governo nazionale che nei confronti dell'Isola è debitore di centinaia di milioni di euro. E che certamente non aiuta la Sicilia, alla quale tocca il peso di una partecipazione alla spesa pubblica enorme e sproporzionata, uno scarso riconoscimento delle prerogative dello Statuto, una compartecipazione alla spesa sanitaria abnorme e oggi ingiustificata. Roma, insomma, se non è nemica della Sicilia non è nemmeno amica. Ma in questo quadro, l'ultimo pallino di Faraone è quello di piazzare il nuovo capogruppo del Pd. Che sarà un deputato non eletto tra i democratici. Una origine condivisa dai tanti “nuovi renziani” imbarcati in occasione della Leopolda sicula voluta dal sottosegretario: ex seguaci di Cuffaro, Lombardo e Berlusconi. Una rottamazione che parla la lingua del trasformismo. E che potrebbe tornare utile, forse, in vista di una candidatura alle prossime elezioni dello stesso Faraone. Me nel frattempo, tra liti e ambizioni, incapacità e giochi di potere, la Sicilia, senza governo e senza soldi, sta morendo.

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