Himera, quel viadotto costruito sul fiume:
se la natura si ribella al cemento
Un gigante coi piedi d’argilla. Il viadotto Himera sull’A19,
che prende il nome dal fiume di cui segue le anse, dopo quarant’anni
non ha retto più, spaccando in due la Sicilia e catapultandola nel
passato, come in un beffardo viaggio nel tempo.
Mentre i vertici dell’Anas si leccano le ferite
e gli esperti lavorano al progetto per la bretella di collegamento tra
gli svincoli di Scillato e Tremonzelli, il destino del viadotto è già
segnato: entrambe le carreggiate saranno demolite.
Parola del ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, ieri in
visita sul luogo del disastro. Nel frattempo, chissà per quanti anni,
gli automobilisti saranno impegnati a fare il grand tour della
Sicilia per raggiungere Palermo o Catania, oppure si “godranno” i
suggestivi paesaggi madoniti da quello che rimane delle statali e
provinciali, ridotte a brandelli.
Tutto questo si poteva prevedere o è stata colpa della “natura matrigna”
che, capricciosa, ha fatto franare il terreno su cui poggiavano i
piloni? “Le cause del cedimento non sono le piogge eccezionali che hanno
riattivato una frana, nota dal 2005, e sottovalutata, ma sono proprio
quei piloni, tutti costruiti sui greti dei fiumi Imera meridionale e
settentrionale e Dittaino”. Parola di Gianluigi Pirrera, ingegnere, presidente della sezione siciliana dell’Aipin (Associazione italiana per l’ingegneria naturalistica), che vanta una lunga esperienza sul rischio idrogeologico nell’Isola.
In effetti, basta guardare l’autostrada dall’alto con l’aiuto di Google Maps,
per rendersi conto di come buona parte dell’A19, da Buonfornello in
poi, di fatto, sia stata realizzata sul fiume. “L’autostrada –
spiega Pirrera – è stata costruita sulla plasticità delle argille dei
letti, tanto che i lavori di manutenzione sono continui. Il cedimento è
il frutto di una gestione del territorio avvenuta senza una
pianificazione ambientale adeguata e ciò si riflette nella difesa
idrogeologica affidata a tecniche rigide cementizie e nelle
infrastrutture viarie”.
La “natura matrigna”, dunque, si riprende i suoi spazi,
ribellandosi all’uomo colpevole di aver “occupato” il suolo lì dove non
avrebbe dovuto. “La realizzazione dei viadotti dentro i letti dei fiumi
– spiega ancora l’esperto – è stata un’operazione sbagliata, che adesso
si rivolta contro noi stessi. Sarà inutile prevedere i soliti rimedi,
che oltre ad essere costosissimi, sono peggiori del male, e cioè pali
profondi 80 metri, micropali e muri in cemento armato”. Secondo Pirrera
bisognerebbe, invece, intervenire aumentando la forza e la resistenza dei terreni,
con un’adeguata piantumazione, “cosa che, tra l’altro, va nella
direzione della mitigazione del cambiamento climatico, magari
utilizzando per una volta in modo intelligente i precari forestali”.
Proprio per questo, ieri mattina a Palermo, è stato sottoscritto un documento per la valorizzazione, la riqualificazione sostenibile e il recupero dei territori, firmato, tra gli altri, dall’Anci Sicilia,
dalla stessa Aipin, dall’Istituto nazionale di urbanistica,
dall’associazione Vivaisti Forestali e dall’ex soprintendente ai Beni
Culturali di Catania, Vera Greco. L’accordo – si legge in una nota
“nasce dalla richiesta di un intervento immediato perché si attui un
piano straordinario di riqualificazione delle strutture ed
infrastrutture territoriali per adeguarle alle nuove condizioni
climatiche e di rischio”.
Intanto, il bilancio dei primi cinque giorni senza quei 16 chilometri di autostrada è già pesante.
Migliaia di pendolari infuriati, cavi di fibra ottica tranciati,
un’inchiesta della Procura per disastro colposo e danni stimati per 30
milioni di euro. Mentre la Sicilia crolla, là in mezzo scorre il fiume.
15 Aprile 2015
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