Quant'è "mignon"la Sicilia vista dall'euro-oblò
Mario Barresi
Nostro inviato
Strasburgo. Se fosse soltanto una bella città, allora in questi giorni sarebbe - e in effetti è - davvero meravigliosa. Capital de Noël, si autoproclama Strasburgo. Sfoggiando la suggestione di luci che ammiccano e profumi che inebriano: è come stare dentro una fiaba di Natale. Eppure è da qui, dal cuore aristocratico e un po' sprezzante dell'Europa, che - proprio in quei palazzi di vetro non troppo distanti dai mercatini natalizi che sanno di vin chaude e di tarte flambée - si decide il nostro futuro.
La Sicilia vista dall'euro-oblò. Un puntino, laggiù, un semaforo triangolare sul Mediterraneo. Così lontana, eppure così vicina. Sì, perché è in queste stanze che scorrono le acque calme di fiumi pieni di miliardi di euro. Che spesso non sappiamo spendere, che spessissimo spendiamo male. Se n'è parlato, in questi corridoi, di quei fondi che nei documenti - suddivisi in 28 lingue e ben riposti negli espositori davanti alla sala della plenaria - dovevano servire per «promuovere partenariati e patti formativi locali per la realizzazione di iniziative innovative a supporto della formazione e della qualificazione del capitale umano». E noi, in Sicilia, che ci abbiamo fatto? Li abbiamo usati per costruire marciapiedi: 363 progetti dei comuni per una media di 115mila euro e un totale di circa 41 milioni. Sciocchezze. Sulle quali "Mamma Europa" chiude più di un occhio, così come fa pur sapendo che a Palermo si impiegano i fondi per lo sviluppo per pagare forestali e precari. Sciocchezze. Soprattutto se paragonate ai soldi della programmazione 2007/13 che stiamo affannosamente provando a spendere. L'ultimo conteggio del pallottoliere di Strasburgo parla di un 52% sui circa 4 miliardi di fondi strutturali, con il 31 dicembre 2015 ultima data utile per il danno di perderli e la beffa del disimpegno di ulteriori somme nella nuova programmazione.
La nuova commissaria europea agli Affari regionali, Corina Cretu, è una che non le manda a dire: ammettendo di essere «un po' preoccupata per le regioni del sud Italia perché sembra che non siano state capaci di gestire correttamente e pienamente i fondi». Indicando col ditino, sulla cartina geografica dell'Ue, a cosa si riferisce. «Possiamo fare la differenza - e questa è la carota - in regioni povere come Sicilia, Campania e Calabria». Ma poi arriva il bastone: «Finora non sono state in grado di gestire correttamente e integralmente i finanziamenti a cui hanno diritto. Ciò risulta evidente analizzando i loro programmi 2007-2013, che sono fra i più in ritardo in tutta l'Ue».
E mentre a Palermo tutti si trasformano in 007 in missione speciale (ma tardiva) per capire il perché e il per come del miliardo di fondi Pac non spesi dalla Sicilia e tornati nel forziere di Palazzo Chigi che decide di usarli per coprire altri brandelli di una coperta sin troppo corta, c'è già qualcuno che è ben più avanti. Con bisturi e forbici. A Roma. Dove il governo Renzi è pronto a ridurre dal 50 al 26% il cofinanziamento nazionale ai fondi Ue 2014-2020 per le tre regioni del Sud in fondo alla classifica per capacità di spesa: Campania, Calabria e Sicilia. A consentire l'operazione sono i regolamenti Ue che per le aree "obiettivo 1 convergenza" prevedono un cofinanziamento nazionale minimo del 26%. Tenendo conto solo dei due fondi principali, il Fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fesr) e il Fondo sociale europeo (Fse), la dotazione di fondi Ue 2014-2020 è di 6.860 milioni per la Sicilia, 6.326 milioni per la Campania e 3.031 per la Calabria. Per la nostra regione nella quota di minore cofinanziamento nazionale ballano almeno 1,6 miliardi. «Condivido in pieno la decisione del governo italiano di limitare il cofinanziamento nazionale» per Campania, Calabria e Sicilia «al minimo imposto dai regolamenti, al fine di ridurre il rischio che i gravi problemi di sotto utilizzazione e irregolarità si manifestino con la stessa portata nel 2014-2020», dice senza indugi il commissario Cretu.
Eppure c'è tutta un'altra storia da raccontare. Riguarda il futuro. Che per le grisaglie e i tailleur di Strasburgo è già di fatto il presente. Mentre hai l'impressione che il frenetico camminare di europarlamentari, funzionari, assistenti e affini sia un tapis roulant tanto infinito quanto fine a se stesso, qui le cose camminano eccome. I dossier diventano progetti concreti, le idee si tramutano in capitoli di bilancio con miliardi di finanziamenti. Sembrano questioni che non ci riguardano, impegnati - noi siciliani - a tenere bassa la testa sulle cose di casa nostra. Eppure basta stare qualche giorno qui a curiosare fra ufficio stampa e centro documentazione per essere clamorosamente smentiti. E non solo perché un bel giorno, splulciando il famigerato piano Juncker da 315 miliardi di cui proprio in questi giorni di discute a Stasburgo, si scopre che lì dentro ci sono anche progetti decisivi per la Sicilia: il nodo ferroviario di Palermo (1 miliardo), l'autostrada Siracusa-Gela (866 milioni) e la Ragusa-Catania (815 milioni), più lo sviluppo dei porti di Catania e Termini Imerese (184 milioni).
C'è dell'altro, nel pentolone comunitario che ribollirà fino alla fine di questo decennio. La Sicilia che sbandiera la (virtuale) rottamazione delle Province e che si arrabatta per tenere alto il vessillo dell'Autonomia, sembra anni luce indietro, ad esempio, rispetto alla "Politica di Coesione 2014-2020". Che vede un canale di investimento privilegiato direttamente per le città. Ben 351,8 miliardi di euro, pari al 32,5% del bilancio Ue per il settennio, orientato alla «crescita inclusiva, intelligente e sostenibile». L'Italia, con 42 miliardi, è il secondo Stato per dotazione di bilancio. E una significativa parte di questi soldi - messaggio per i nostri sindaci impegnati a far quadrare i conti per comprare la carta igienica negli uffici - sarà destinata alle città. «Gli strumenti messi in atto dalla politica di coesione 2014-2020 rafforzano il ruolo delle aree urbane, riconoscendo il valore di investendo principalmente e in particolare nelle città», dicono. Ambiente, energia, mobilità, tecnologie al servizio del miglioramento della qualità della vita: l'Europa vuole (e finanzia profumatamente) città sempre più "smart" e intelligenti.
E se da un lato la tendenza è di privilegiare il territorio sempre più micro, dall'altro si comincia a capire che il futuro contenitore di progetti e di finanziamenti potrebbe non essere più la regione. Perché si fa strada sempre più l'idea di macro-regione: un'aggregazione di territori omogenei, anche transnazionale, con una cabina di regia che dirige le politiche di sviluppo. Per questo, giusto per fare un esempio raccolto a Strasburgo, è grave che la Sicilia non partecipi attivamente come gli altri partner alla nascita della Macroregione Adriatico-Ionica - qui nota con l'acronimo inglese di Eusair, Eu strategy for the Adriatic and Ionian Region - che coinvolge otto Stati europei e in Italia ben 13 Regioni. Fra quest'ultime c'è una guerra per avere la leadership, mentre la Sicilia è talvolta assente agli incontri e spesso non rappresentata dai vertici istituzionali.
Per questo il ruolo dei nostri rappresentanti a Strasburgo diventa quanto mai decisivo, nei prossimi anni. E lo status di europarlamentare, fino agli scorsi anni considerato una sorta di "esilio" dalla nostra politica miope e provincialotta, assume un'importanza chiave. Per intenderci: è molto più utile sapersi muovere fra questi corridoi e saper bussare negli uffici giusti, piuttosto che fare passerelle in terra sicula. Un modus operandi che Michela Giuffrida, eurodeputato catanese del Pd con ruoli in commissioni-chiave come la Sviluppo regionale e l'Agricoltura e nella delegazione dell'Unione per il Mediterraneo, ha già messo in pratica. «Strasburgo è tutt'altro che distante dalla Sicilia, perché tutto quello che si decide qui è decisivo per il destino delle nostre istituzioni regionali e locali, per le nostre aziende e per le nostre famiglie». Attività produttive, lavoro, welfare e qualità della vita, ma anche infrastrutture, istruzione, ricerca, giovani: «Ci sono enormi opportunità e la Sicilia deve saperle cogliere cambiando approccio. Non più col cappello in mano per elemosinare fondi che magari vengono sprecati o spesi male, ma a testa alta, con un board di alto profilo in grado di progettare e soprattutto di mettere in pratica». Ecco, appunto. C'è tempo fino al 2020 per riuscirci, ma siamo già in tremendo ritardo. Perché dopo questi sette anni, se dovessimo fallire ancora, le euro-bacchettate che spesso e volentieri ci solleticano le mani diventeranno una sonora bocciatura. Senz'appello.
twitter: @MarioBarresi
22 Dicembre 2014
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