di Marco Damilano
«Questa regola non contiene la totalità di ciò che è giusto». L’avessero fatta propria, la clausola finale della regola dettata da San Romualdo ai monaci di Camaldoli nel 1025, i profeti del Sì e gli apostoli del No non si troverebbero in questa situazione.
A due settimane del voto del 4 dicembre, l’ultima foto scattata dai sondaggi prima del divieto di pubblicazione ritrae il No in vantaggio sul Sì, un quarto di indecisi e un’affluenza di votanti prevista di poco più della metà. Certo: numeri destinati a essere rimescolati nei prossimi quattordici giorni in cui si moltiplicheranno gli appelli al voto a italiani all’estero, poliziotti, insegnanti, coltivatori diretti, artigiani, imprenditori, notai, tassisti, artisti, poeti, navigatori, trasmigratori... Ma si può fin da ora registrare più saturazione che partecipazione.
La «maggioranza silenziosa», l’ha chiamata Matteo Renzi, in modo maldestro perché da Richard Nixon al deputato piduista Massimo De Carolis l’espressione ha sempre definito quella parte di elettorato legge e ordine che si fa vivo solo il giorno del voto per poi tornare a inabissarsi: l’opposto del coinvolgimento in un’impresa collettiva, la vita activa di Hannah Arendt.
Ma Renzi, involontariamente, ha colto il punto. Perché non può essere considerata una maggioranza silenziosa quella che ha eletto Donald Trump in America, era al contrario una minoranza rumorosissima, se solo avesse trovato orecchie pronte ad ascoltare e non foderate di pregiudizio tra i liberal, i sondaggisti, la stampa. Mentre qui in Italia, il referendum divide e lacera in modo drammatico il Palazzo e i partiti, ma a questo clima apocalittico corrisponde il crescente distacco con cui la maggior parte degli italiani, anche quelli che voteranno sì o che voteranno no, seguono lo scontro tra l’opposta retorica della riforma risolutiva (basta un sì? magari...) e della deriva autoritaria.
Un sentimento ben raccontato e rappresentato da Roberto Saviano su l’Espresso : «Tutto il rumore che si sta facendo è un modo per occupare posizioni in quella che è una personalissima lotta per il raggiungimento di un personalissimo potere. Non mi saranno amici i signori del sì e non mi saranno amici i signori del no se dico che questo risiko per recuperare una percentuale minima di consenso è il peggior servizio che si sta facendo all’Italia. Un danno del quale non voglio essere complice. Non mi chiamate in sostegno, questo referendum è solo affar vostro, per questo referendum, io non ci sono». Qualcosa di simile ha detto Romano Prodi: «Il grande evento ormai si è consumato. Le altre sono realtà più piccole», ha ridimensionato il Professore dopo la vittoria di Trump.
Il rumore del Palazzo. E il silenzio della società. «Quella degli ultimi anni è un’Italia esagerata», ha detto un monumento vivente, l’ex portierone della Nazionale Dino Zoff. La campagna per il voto referendario è lo specchio di questa esagerazione, senza misura e limite. Interminabile, eccessiva, sproporzionata, spudorata. Trasformata in una guerra di religione, con i suoi condottieri, i dottori della legge, i teologi, gli inquisitori, i gesuiti euclidei, i professori armati di catechismi con apposite formulette, senza possibilità di perdono in caso di deviazione dalla retta via.
Tifoseria contro tifoseria, setta contro setta, predisposte a escludere più che a includere, fuori di noi nessuna salvezza: l’inferno dell’instabilità, per i seguaci del Sì, o della dittatura strisciante, per i messaggeri del No. E più si avvicina l’ora della verità, più si percepisce il quasi-falso, l’artefatto, il taroccato: come quei marchi che ricordano il modello originale ma lo tradiscono. Taroccato il quesito, sventolato dal premier negli studi tv, taroccato il futuro Senato, una simil-Camera alta acquistabile a prezzi stracciati al mercatino, taroccata, forse, l’intera riforma. Ma taroccato, anche, il pericolo della svolta totalitaria, fasullo il rischio dell’uomo-forte che sarebbe, al più, un simil-Erdogan.
Si parte da un’esigenza giusta, il cambiamento, o da una legittima preoccupazione, il timore di smantellare la Costituzione. Ma subito dopo arriva la propaganda, l’urlo sui social che non lascia scampo al pensiero critico. All’osso: il sì vincerà se Renzi riuscirà a far passare che la riforma taglia stipendi e poltrone, con gli argomenti dell’anti-politica, di Grillo (e di Trump), non per le raffinatezze costituzionali sulla fine del bicameralismo paritario.
E il no vincerà se prevarrà l’idea di rovesciare il premier con un voto su altra materia, argomento iper-politico, da manovratori di Palazzo, più alla D’Alema che da 5 Stelle. Schemi rudimentali, che di profondo smuovono solo il rancore. Nulla di paragonabile a quanto accaduto in altri momenti della storia repubblicana: il referendum tra la repubblica e la monarchia di settant’anni fa, vero passaggio cruciale, gestito dalla nuova classe politica anti-fascista, i democristiani, i comunisti con l’intento di ricucire la lacerazione dolorosa tra una metà del Paese e l’altra. Oppure il referendum sul divorzio del 1974, in cui gli elettori si dimostrarono più maturi e avanzati dei dirigenti di partito. E i referendum di Mario Segni di inizio anni Novanta, soprattutto il primo del 1991, che sprigionarono energie e passioni più ampie dell’oggetto della consultazione (la modesta abolizione della preferenza multipla). Fu una rivolta dei cittadini contro un sistema partitico sclerotico come la nomenclatura sovietica che si era espresso per far fallire quel voto.
Quell’onda di entusiasmo è un lontano ricordo. Il referendum 2016 registra il derby tra i costituzionalisti, gli ex presidenti della Corte costituzionale, i giornalisti, schierati di qua o di là. E scarsissima mobilitazione sui territori, nei quartieri, nelle città. Responsabilità di Renzi che non ha saputo, nonostante l’occupazione mediatica, dare l’idea di un gioco nuovo. E di chi, contrastandolo, si è barricato sul terreno della più cocciuta conservazione.
Nel merito il referendum è la risposta a una domanda decisiva trent’anni fa, quando il Parlamento era il cuore del sistema e riformare il bicameralismo significava davvero accelerare le decisioni. Mentre oggi vuol dire tagliare la mano quando già è stato amputato il braccio: le assemblee legislative contano poco in Europa e pochissimo in Italia, il pendolo del potere si è spostato sull’esecutivo, il governo. Ma di questo la riforma non parla. Appunto.
Così sul referendum si combattono altre battaglie. Sul 4 dicembre si svolge il congresso del Pd e si decide chi avrà la futura leadership del centro-destra, il trumpista Matteo Salvini o il Berlusconi che ora si scopre centrista e moderato (chiedere informazioni a Marco Follini e Gianfranco Fini), con il povero Stefano Parisi già scaricato. Come sarà la nuova legge elettorale e chi guiderà la Rai, l’Eni, l’Enel, Fimeccanica.
Nell’attesa del Giudizio universale l’intero Paese è stato bloccato in queste due parole. Il Sì e il No. Il renziano fronte del Sì, per assonanza, ha cominciato a dire di sì a tutto: sì al ponte sullo stretto, sì ai condoni, sì ad Altiero Spinelli e sì al tricolore al posto dello stendardo europeo. Il fronte del No, di Salvini e Grillo, in compenso ha detto di no a tutto: no alle Olimpiadi, no alle linee della metro, no agli sbarchi dei migranti. Troppe cose per una sola sillaba. Troppo stretti, il Sì e il No, per contenere la complessità della società, le speranze e le angosce, la rabbia e la volontà nonostante tutto di ripartire.
La campagna referendaria, per ora, consegna un’unica certezza: non basta un sì o un no a coprire il vuoto politico, organizzativo e culturale in cui si muovono i leader vecchi e nuovi. Un progetto politico è più grande di un sì e un giornale deve restare più aperto e imprevedibile di un no. Ci sono più cose in cielo e in terra da rifare in questa Italia di un sì o di un no. Per questo, nelle prossime settimane, sarà interessante valutare chi rimane fuori dai due schieramenti. I non Incasellati. I non Arruolati che voteranno in modo laico e saranno decisivi per il risultato. Quando ci sarà da ricostruire. Scrivere la pagina del Dopo. Liberati, finalmente dalla gabbia asfissiante del Sì e del No. Nessuna regola contiene la totalità di ciò che è giusto, dettava la saggezza dei monaci antichi. Bastava dirlo.
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21 Novembre 2016
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