La verità sui Forestali della Sicilia e una ricetta per tutelare il nostro territorio
E’ tempo di porre fine a una speculazione contro la Sicilia. Spiegando che i Forestali nascono da un accordo tra Stato e Regione del 1965. Precisando che a pagarli è la Regione e non Roma, al contrario di quanto raccontano nei vari Talk show. Riqualificando questa spesa creando un servizio per la tutela dell’Isola dal dissesto idrogeologico e dagli incendi
Diciamo subito, a scanso di
equivoci, che l’equilibrio assistenzialista della I Regione non era
utile alla Sicilia, anzi fu un errore drammatico. Non è nostra
intenzione difendere l’indifendibile. La Sicilia, con gli accordi
finanziari del 1965, rinunziava alla propria autonomia tributaria, pur
sempre scolpita solennemente nello Statuto, in cambio di un relativo
benessere improduttivo quanto diffuso. La Sicilia, nella divisione del
lavoro nazionale, doveva essere solo mercato di consumo dei prodotti
italiani, terra di saccheggio delle risorse naturali a buon mercato,
riserva di braccia e menti per una produzione che si svolgeva altrove, e
fonte di voti che servivano a mantenere sempre e comunque un equilibrio
“moderato” al Paese.
Un patto scellerato, insomma, tra le anime belle che avevano sepolto l’indipendentismo prima e l’autonomismo milazziano dopo, e i poteri forti nazionali che la sfruttavano all’esterno. All’ombra di queste “anime belle”, spesso ai vertici della politica regionale, fioriva il malaffare che porta sempre con sé la spartizione di denaro pubblico in assenza di sviluppo, e quindi la mafia, nei suoi peggiori giorni.
Fu in questo clima maleodorante e stantio che, una trentina di anni fa, si “inventarono” gli operai della forestale. Sfruttando il bisogno e la disoccupazione diffusa, la classe politica di allora si poté permettere un ricatto collettivo, un gigantesco voto di scambio, fatto alla luce del sole, con la benedizione dei partiti romani, dei commissari dello Stato pro tempore, e forse anche della magistratura contabile, allora forse più accomodante che oggi. Quel patto scellerato, estorto col bisogno delle vittime, gli stessi che oggi si vogliono far passare per “fannulloni”, stravolgeva gli ordinamenti democratici in Sicilia, giacché, soprattutto nelle campagne, essere inseriti nella “forestale” significava aver risolto ogni problema di sussistenza. Vero è che il rapporto, configurato a “giornate” e differenziato per infornate diverse (il solito “divide et impera”), non era sufficiente a sopravvivere tutto l’anno. Ma, per la restante parte dell’anno, si poteva contare sull’indennità di disoccupazione e, comunque, nel grigiore dello stato di diritto che c’è sempre nelle estreme propaggini dello Stato, attraverso non dichiarate attività di altro tipo, agro-pastorali o commerciali, che, nel complesso, hanno garantito la sopravvivenza di un vero e proprio Popolo che, in mancanza, sarebbe stato costretto ad un esodo di portata biblica. Quel patto era possibile perché la Regione, sia pure entro certi limiti, era allora ricca di risorse. Il patto del 1965 le garantiva ampia autonomia di spesa, senza avere alcuna responsabilità sull’entrata, e quindi era ritagliata su di un modello volutamente assistenziale.
Eppure quel patto, con tutti quei difetti, aveva anche qualche pregio. Bisogna avere il coraggio e l’onestà di dirlo. Furono chiamati “forestali”, ma non si dovevano occupare di foreste, quanto di manutenzione del territorio, anzi, guardando quella che sarebbe diventata nel tempo la loro funzione prevalente, si sarebbero dovuti più correttamente chiamare operai antincendio, una sorta di vigili del fuoco rurali. Il territorio, in Sicilia come in Italia, è stato sottoposto dalla seconda metà del XX secolo, ad un processo di deforestazione e di dissesto sempre più grave. Il lavoro di questi operai era tutt’altro che inutile, soprattutto in un’area, quale quella siciliana, a concreto rischio di desertificazione.
Con l’abbondanza di risorse del tempo, quindi, la classe politica siciliana, mediocre ma comunque assai superiore rispetto a quella attuale, dava una risposta vera ad un problema vero, seppure pagando un prezzo enorme. E, per massimizzare la gestione del consenso, anziché creare un corpo funzionale allo scopo, preferì spezzettare le risorse disponibili quanto più possibile attraverso rapporti di tipo part-time e a tempo definito, in modo da legare a sé la più ampia parte possibile dei ceti rurali isolani. Secondo la celeberrima massima di Salvo Lima, “Quannu ‘a pignata vugghi, av’a vùgghiri pi tutti”. Un’idea geniale, politicamente parlando, secondo una concezione cinica della politica. Massimizzare il numero dei beneficiari, accollare all’Italia, attraverso l’indennità di disoccupazione, parte del loro sostentamento, tenendoli però sempre al guinzaglio con la prospettiva del mancato rinnovo.
In un’Italia in cui, dopo la sconfitta siciliana nella guerra politica del 1958-60 (la Sicindustria contro Confindustria), alla Sicilia, e soprattutto alle sue aree rurali, era negato ogni ruolo economico vero, l’operazione “forestali” serviva anche a preservare il Popolo siciliano dall’estinzione o da una desertificazione paragonabile a quella subita, negli stessi anni, dalle aree interne del Mezzogiorno continentale (come ad esempio la Basilicata o il Molise, letteralmente spopolati dall’emigrazione) o della Sardegna.
Poi, poco a poco, vennero le scarpe strette. La coperta delle risorse si fece sempre più corta. Nuove immissioni diventarono sempre più difficili. Bisognava tirare a campare con le risorse umane che c’erano. L’età media di questi operai andava lentamente ad aumentare, e, con essa, diminuiva fatalmente l’efficacia del servizio. Ma, la forza del numero, ha sino ad ora dissuaso chiunque dallo sfidare alcune decine di migliaia di cittadini votanti che comunque non avevano chiesto loro di finire in questo cul de sac. Solo l’aggressiva e cieca austerità europea, e la rapacità dello Stato italiano in preda al dissesto finanziario, hanno fatto venire i nodi al pettine, e costretto di fatto la Sicilia di oggi a fare default con gli operai della forestale, non rinnovando più i contratti, centellinando gli interventi, abbandonandoli tutti, improvvisamente ad una vera e propria macelleria sociale.
Nel frattempo i “forestali siciliani” in Italia a qualcuno facevano sin troppo comodo. Negli ultimi dieci anni lo Stato ha usato la Sicilia come un bancomat. I “forestali” hanno fornito la migliore copertura ideologica di questo saccheggio. Qualunque protesta, peraltro flebile, dei Siciliani, era sommersa da una valanga di insulti del tipo: “Ma non vi vergognate? Voi siete quelli che avete assunto, a spese nostre, 30.000 forestali! Che vergogna! Altro che Autonomia! Vi dovremmo togliere tutto. Ma poi, come fate ad avere tanti forestali? Manco aveste le foreste del Canada…”. E via discorrendo con una strumentalizzazione ideologica che ha coperto dei veri e propri crimini contro la Sicilia, un vero e proprio genocidio economico paragonabile in Europa solo a quello greco. Sullo sfondo i forestali, dipinti come “mangiapane a tradimento”; naturalmente mangiapane a spese degli italiani, nordici in testa.
Inutile entrare nel merito dicendo che, se di spese si deve parlare, si deve parlare di spese dei siciliani, non degli italiani. Perché esse sono a carico del “nostro” e non del “loro” bilancio. Inutile dire che non sono 30.000, che sono di meno e che, essendo part-time, equivalgono a non più di 7.000 dipendenti a tempo pieno. Inutile, non c’è spazio per le repliche. L’argomento è troppo ghiotto per la retorica coloniale che ci bagna il pane ogni giorno. E, francamente, mi pare sia ora di finirla.
Come se ne esce? Ritornando al passato? Impossibile, non ci sono più margini. Ma, al contrario, con un’azione coraggiosa che dia dignità alla Sicilia, ma anche a questi nostri fratelli, che sono lavoratori come noi, che talvolta rischiano la vita in mezzo alle fiamme, che hanno una famiglia come noi, e che soprattutto sono vittime come noi della mancanza di opportunità vere di lavoro.
Intanto bisogna cambiare loro nome. Chiamateli come volete, ma mai più forestali. Non offriamo pretesti alla solita retorica del Canada. In Italia si pensa che siano i guardacaccia dell’Orso Yoghi, per un’Isola quasi senza foreste, e giù crasse risate. Sono invece “operai anti-incendio”, “corpo di protezione del territorio”, quel che volete, ma date loro un nome che intanto rispecchi la loro vera funzione. C’è chi li confonde addirittura con il Corpo Forestale Regionale, che è altra cosa, un corpo di polizia vero e proprio, sebbene esangue e in via di estinzione. Ma non possiamo parlare di tutto oggi.
Poi si deve dire coraggiosamente che di questo lavoro la Sicilia ha un estremo bisogno, altro che storie! Chi vuole smantellarlo sappia che questo equivale all’abbandono totale del nostro fragile territorio all’incuria e alla continua devastazione. Ci lamentiamo poi delle frane? Gli “operai del territorio” devono riforestare e fare manutenzione alle zone rurali perché diminuiscano gli incendi, e devono ricevere stipendio e incentivi in funzione di questo risultato.
Si narra che i medici imperiali dell’antico Impero Cinese ricevessero un lauto stipendio soltanto finché l’imperatore godeva di ottima salute. Non sarebbe male dare, oltre alla paga base, un incentivo che decresce man mano che la superficie bruciata nelle stagioni estive aumenta. Gli operai conoscono bene il territorio e, se non possono proprio evitare del tutto gli incendi dolosi, forse meglio di chiunque altro sanno come si fa a prevenirli e ad identificare i potenziali responsabili. E poi così finirebbe di colpo l’accusa infamante che li circonda di essere proprio loro i responsabili degli incendi dolosi.
Poi c’è il numero. Quanti ne servono? Quanti ce ne vogliono? Si faccia uno studio tecnico accurato e si determini un organico funzionale, dividendo poi il territorio siciliano in circa 25 distretti, su ciascuno dei quali attribuire la competenza ad una “Compagnia” di operai territoriali. Supponiamo che questo studio dia un numero intorno ai 3.500 dipendenti (a tempo pieno!). Questo deve essere l’organico di riferimento, con un normale tasso di turn-over. Si distribuiscano poi gli operai esistenti tra le singole compagnie e si calcoli a quanti dipendenti a tempo pieno corrispondono gli attuali dipendenti part-time. Supponiamo, come è quasi certo, che si creino degli esuberi. Si tengano gli esuberi, programmando una riduzione del turn-over per compagnia al 10 % del personale cessato, finché non si rientra dentro l’organico programmato.
Ma, e qui starebbe la novità, il nuovo organico non dovrà mai più essere precario, e anche il vecchio dovrà essere stabilizzato. È ora, dopo 30 anni, di dare dignità a queste persone. Tutti, ma proprio tutti, gli operai della forestale siano intanto assunti con una grande stabilizzazione che ponga fine a questa vergogna nazionale. Naturalmente saranno assunti solo “part-time”, cristallizzando le posizioni attuali. Ma i nuovi, anche solo per i modesti rimpiazzi al 10 %, siano assunti con una selezione pubblica, come prevede la Costituzione, e inquadrati a tempo pieno e indeterminato, dopo un necessario periodo di prova. È ora di dare anche spazio ai giovani, e di non fare invecchiare il pubblico impiego fino alla sua completa disfunzionalità.
Questa soluzione darebbe dignità a un intero pezzo di Sicilia. Porrebbe fine ad una vergognosa eterna clientela politica. Ma forse sarebbe anche l’inizio di una risistemazione complessiva della gestione del territorio, man mano che sangue nuovo, risorse giovani e preparate, prenderanno il posto dei “forzati” del lavoro precario, tra i quali comunque non mancano le risorse da valorizzare.
Si dirà: “Non è sostenibile! È demagogia!”. Non è vero, numeri alla mano. Quanti sono, ridotti a tempo pieno, gli effettivi ranghi attuali? Sono 7.000? Sono 8.000? A spanne non di più, considerando che si tratta di posizioni a part-time molto limitato. E quindi non più del doppio di quelli che servono veramente. E per di più di età media piuttosto elevata. Quanto ci vuole a rientrare nei ranghi dell’organico? Dieci anni? Non di più. E fra 10 anni, solo fra 10 anni, saremo un Paese civile, solo che lo vogliamo. E non vogliamo invece continuare con questo mercato immondo e clientelare, in cui contemporaneamente non si realizza un buon servizio, si sprecano soldi pubblici, non c’è dignità per i lavoratori, e la nostra immagine all’esterno ne esce devastata. Solo i partiti italiani avrebbero potuto pensare un congegno infernale come questo.
Le risorse, si dirà… Ma stiamo parlando solo di poche centinaia di milioni l’anno, tutto incluso. Basterebbe che lo Stato dismettesse uno dei tanti furti fiscali ai danni della Sicilia (che so? qualcuna delle ritenute fiscali illegittimamente trattenute, come quella sui premi assicurativi, ovvero alcune imposte di consumo, come quelle sulle bollette elettriche o del gas). Ovviamente, quindi, il prezzo di questa sistemazione in un certo senso lo deve pagare lo Stato, ma non come dicono i giornali italiani, nel senso che “dall’Italia” vengono camionate di soldi presso la Sicilia, ma nel senso – in sé ovvio – che l’Italia la smetta di pompare sangue siciliano e cerchi altrove di saziare la propria brama. Sono in fondo tasse nostre, soldi nostri, e solo una politica serva può continuare a far perpetrare questo furto ai nostri danni.
La soluzione al dramma dei forestali è a portata di mano. Basta volerlo veramente. E nessuno potrebbe mai più parlare in Italia, perché la staremmo risolvendo con i nostri soldi. Ma quale forza politica italiana, anche in odore di antisistema, avrà il coraggio di portare avanti una soluzione simile?
Un patto scellerato, insomma, tra le anime belle che avevano sepolto l’indipendentismo prima e l’autonomismo milazziano dopo, e i poteri forti nazionali che la sfruttavano all’esterno. All’ombra di queste “anime belle”, spesso ai vertici della politica regionale, fioriva il malaffare che porta sempre con sé la spartizione di denaro pubblico in assenza di sviluppo, e quindi la mafia, nei suoi peggiori giorni.
Fu in questo clima maleodorante e stantio che, una trentina di anni fa, si “inventarono” gli operai della forestale. Sfruttando il bisogno e la disoccupazione diffusa, la classe politica di allora si poté permettere un ricatto collettivo, un gigantesco voto di scambio, fatto alla luce del sole, con la benedizione dei partiti romani, dei commissari dello Stato pro tempore, e forse anche della magistratura contabile, allora forse più accomodante che oggi. Quel patto scellerato, estorto col bisogno delle vittime, gli stessi che oggi si vogliono far passare per “fannulloni”, stravolgeva gli ordinamenti democratici in Sicilia, giacché, soprattutto nelle campagne, essere inseriti nella “forestale” significava aver risolto ogni problema di sussistenza. Vero è che il rapporto, configurato a “giornate” e differenziato per infornate diverse (il solito “divide et impera”), non era sufficiente a sopravvivere tutto l’anno. Ma, per la restante parte dell’anno, si poteva contare sull’indennità di disoccupazione e, comunque, nel grigiore dello stato di diritto che c’è sempre nelle estreme propaggini dello Stato, attraverso non dichiarate attività di altro tipo, agro-pastorali o commerciali, che, nel complesso, hanno garantito la sopravvivenza di un vero e proprio Popolo che, in mancanza, sarebbe stato costretto ad un esodo di portata biblica. Quel patto era possibile perché la Regione, sia pure entro certi limiti, era allora ricca di risorse. Il patto del 1965 le garantiva ampia autonomia di spesa, senza avere alcuna responsabilità sull’entrata, e quindi era ritagliata su di un modello volutamente assistenziale.
Eppure quel patto, con tutti quei difetti, aveva anche qualche pregio. Bisogna avere il coraggio e l’onestà di dirlo. Furono chiamati “forestali”, ma non si dovevano occupare di foreste, quanto di manutenzione del territorio, anzi, guardando quella che sarebbe diventata nel tempo la loro funzione prevalente, si sarebbero dovuti più correttamente chiamare operai antincendio, una sorta di vigili del fuoco rurali. Il territorio, in Sicilia come in Italia, è stato sottoposto dalla seconda metà del XX secolo, ad un processo di deforestazione e di dissesto sempre più grave. Il lavoro di questi operai era tutt’altro che inutile, soprattutto in un’area, quale quella siciliana, a concreto rischio di desertificazione.
Con l’abbondanza di risorse del tempo, quindi, la classe politica siciliana, mediocre ma comunque assai superiore rispetto a quella attuale, dava una risposta vera ad un problema vero, seppure pagando un prezzo enorme. E, per massimizzare la gestione del consenso, anziché creare un corpo funzionale allo scopo, preferì spezzettare le risorse disponibili quanto più possibile attraverso rapporti di tipo part-time e a tempo definito, in modo da legare a sé la più ampia parte possibile dei ceti rurali isolani. Secondo la celeberrima massima di Salvo Lima, “Quannu ‘a pignata vugghi, av’a vùgghiri pi tutti”. Un’idea geniale, politicamente parlando, secondo una concezione cinica della politica. Massimizzare il numero dei beneficiari, accollare all’Italia, attraverso l’indennità di disoccupazione, parte del loro sostentamento, tenendoli però sempre al guinzaglio con la prospettiva del mancato rinnovo.
In un’Italia in cui, dopo la sconfitta siciliana nella guerra politica del 1958-60 (la Sicindustria contro Confindustria), alla Sicilia, e soprattutto alle sue aree rurali, era negato ogni ruolo economico vero, l’operazione “forestali” serviva anche a preservare il Popolo siciliano dall’estinzione o da una desertificazione paragonabile a quella subita, negli stessi anni, dalle aree interne del Mezzogiorno continentale (come ad esempio la Basilicata o il Molise, letteralmente spopolati dall’emigrazione) o della Sardegna.
Poi, poco a poco, vennero le scarpe strette. La coperta delle risorse si fece sempre più corta. Nuove immissioni diventarono sempre più difficili. Bisognava tirare a campare con le risorse umane che c’erano. L’età media di questi operai andava lentamente ad aumentare, e, con essa, diminuiva fatalmente l’efficacia del servizio. Ma, la forza del numero, ha sino ad ora dissuaso chiunque dallo sfidare alcune decine di migliaia di cittadini votanti che comunque non avevano chiesto loro di finire in questo cul de sac. Solo l’aggressiva e cieca austerità europea, e la rapacità dello Stato italiano in preda al dissesto finanziario, hanno fatto venire i nodi al pettine, e costretto di fatto la Sicilia di oggi a fare default con gli operai della forestale, non rinnovando più i contratti, centellinando gli interventi, abbandonandoli tutti, improvvisamente ad una vera e propria macelleria sociale.
Nel frattempo i “forestali siciliani” in Italia a qualcuno facevano sin troppo comodo. Negli ultimi dieci anni lo Stato ha usato la Sicilia come un bancomat. I “forestali” hanno fornito la migliore copertura ideologica di questo saccheggio. Qualunque protesta, peraltro flebile, dei Siciliani, era sommersa da una valanga di insulti del tipo: “Ma non vi vergognate? Voi siete quelli che avete assunto, a spese nostre, 30.000 forestali! Che vergogna! Altro che Autonomia! Vi dovremmo togliere tutto. Ma poi, come fate ad avere tanti forestali? Manco aveste le foreste del Canada…”. E via discorrendo con una strumentalizzazione ideologica che ha coperto dei veri e propri crimini contro la Sicilia, un vero e proprio genocidio economico paragonabile in Europa solo a quello greco. Sullo sfondo i forestali, dipinti come “mangiapane a tradimento”; naturalmente mangiapane a spese degli italiani, nordici in testa.
Inutile entrare nel merito dicendo che, se di spese si deve parlare, si deve parlare di spese dei siciliani, non degli italiani. Perché esse sono a carico del “nostro” e non del “loro” bilancio. Inutile dire che non sono 30.000, che sono di meno e che, essendo part-time, equivalgono a non più di 7.000 dipendenti a tempo pieno. Inutile, non c’è spazio per le repliche. L’argomento è troppo ghiotto per la retorica coloniale che ci bagna il pane ogni giorno. E, francamente, mi pare sia ora di finirla.
Come se ne esce? Ritornando al passato? Impossibile, non ci sono più margini. Ma, al contrario, con un’azione coraggiosa che dia dignità alla Sicilia, ma anche a questi nostri fratelli, che sono lavoratori come noi, che talvolta rischiano la vita in mezzo alle fiamme, che hanno una famiglia come noi, e che soprattutto sono vittime come noi della mancanza di opportunità vere di lavoro.
Intanto bisogna cambiare loro nome. Chiamateli come volete, ma mai più forestali. Non offriamo pretesti alla solita retorica del Canada. In Italia si pensa che siano i guardacaccia dell’Orso Yoghi, per un’Isola quasi senza foreste, e giù crasse risate. Sono invece “operai anti-incendio”, “corpo di protezione del territorio”, quel che volete, ma date loro un nome che intanto rispecchi la loro vera funzione. C’è chi li confonde addirittura con il Corpo Forestale Regionale, che è altra cosa, un corpo di polizia vero e proprio, sebbene esangue e in via di estinzione. Ma non possiamo parlare di tutto oggi.
Poi si deve dire coraggiosamente che di questo lavoro la Sicilia ha un estremo bisogno, altro che storie! Chi vuole smantellarlo sappia che questo equivale all’abbandono totale del nostro fragile territorio all’incuria e alla continua devastazione. Ci lamentiamo poi delle frane? Gli “operai del territorio” devono riforestare e fare manutenzione alle zone rurali perché diminuiscano gli incendi, e devono ricevere stipendio e incentivi in funzione di questo risultato.
Si narra che i medici imperiali dell’antico Impero Cinese ricevessero un lauto stipendio soltanto finché l’imperatore godeva di ottima salute. Non sarebbe male dare, oltre alla paga base, un incentivo che decresce man mano che la superficie bruciata nelle stagioni estive aumenta. Gli operai conoscono bene il territorio e, se non possono proprio evitare del tutto gli incendi dolosi, forse meglio di chiunque altro sanno come si fa a prevenirli e ad identificare i potenziali responsabili. E poi così finirebbe di colpo l’accusa infamante che li circonda di essere proprio loro i responsabili degli incendi dolosi.
Poi c’è il numero. Quanti ne servono? Quanti ce ne vogliono? Si faccia uno studio tecnico accurato e si determini un organico funzionale, dividendo poi il territorio siciliano in circa 25 distretti, su ciascuno dei quali attribuire la competenza ad una “Compagnia” di operai territoriali. Supponiamo che questo studio dia un numero intorno ai 3.500 dipendenti (a tempo pieno!). Questo deve essere l’organico di riferimento, con un normale tasso di turn-over. Si distribuiscano poi gli operai esistenti tra le singole compagnie e si calcoli a quanti dipendenti a tempo pieno corrispondono gli attuali dipendenti part-time. Supponiamo, come è quasi certo, che si creino degli esuberi. Si tengano gli esuberi, programmando una riduzione del turn-over per compagnia al 10 % del personale cessato, finché non si rientra dentro l’organico programmato.
Ma, e qui starebbe la novità, il nuovo organico non dovrà mai più essere precario, e anche il vecchio dovrà essere stabilizzato. È ora, dopo 30 anni, di dare dignità a queste persone. Tutti, ma proprio tutti, gli operai della forestale siano intanto assunti con una grande stabilizzazione che ponga fine a questa vergogna nazionale. Naturalmente saranno assunti solo “part-time”, cristallizzando le posizioni attuali. Ma i nuovi, anche solo per i modesti rimpiazzi al 10 %, siano assunti con una selezione pubblica, come prevede la Costituzione, e inquadrati a tempo pieno e indeterminato, dopo un necessario periodo di prova. È ora di dare anche spazio ai giovani, e di non fare invecchiare il pubblico impiego fino alla sua completa disfunzionalità.
Questa soluzione darebbe dignità a un intero pezzo di Sicilia. Porrebbe fine ad una vergognosa eterna clientela politica. Ma forse sarebbe anche l’inizio di una risistemazione complessiva della gestione del territorio, man mano che sangue nuovo, risorse giovani e preparate, prenderanno il posto dei “forzati” del lavoro precario, tra i quali comunque non mancano le risorse da valorizzare.
Si dirà: “Non è sostenibile! È demagogia!”. Non è vero, numeri alla mano. Quanti sono, ridotti a tempo pieno, gli effettivi ranghi attuali? Sono 7.000? Sono 8.000? A spanne non di più, considerando che si tratta di posizioni a part-time molto limitato. E quindi non più del doppio di quelli che servono veramente. E per di più di età media piuttosto elevata. Quanto ci vuole a rientrare nei ranghi dell’organico? Dieci anni? Non di più. E fra 10 anni, solo fra 10 anni, saremo un Paese civile, solo che lo vogliamo. E non vogliamo invece continuare con questo mercato immondo e clientelare, in cui contemporaneamente non si realizza un buon servizio, si sprecano soldi pubblici, non c’è dignità per i lavoratori, e la nostra immagine all’esterno ne esce devastata. Solo i partiti italiani avrebbero potuto pensare un congegno infernale come questo.
Le risorse, si dirà… Ma stiamo parlando solo di poche centinaia di milioni l’anno, tutto incluso. Basterebbe che lo Stato dismettesse uno dei tanti furti fiscali ai danni della Sicilia (che so? qualcuna delle ritenute fiscali illegittimamente trattenute, come quella sui premi assicurativi, ovvero alcune imposte di consumo, come quelle sulle bollette elettriche o del gas). Ovviamente, quindi, il prezzo di questa sistemazione in un certo senso lo deve pagare lo Stato, ma non come dicono i giornali italiani, nel senso che “dall’Italia” vengono camionate di soldi presso la Sicilia, ma nel senso – in sé ovvio – che l’Italia la smetta di pompare sangue siciliano e cerchi altrove di saziare la propria brama. Sono in fondo tasse nostre, soldi nostri, e solo una politica serva può continuare a far perpetrare questo furto ai nostri danni.
La soluzione al dramma dei forestali è a portata di mano. Basta volerlo veramente. E nessuno potrebbe mai più parlare in Italia, perché la staremmo risolvendo con i nostri soldi. Ma quale forza politica italiana, anche in odore di antisistema, avrà il coraggio di portare avanti una soluzione simile?
23 Giugno 2015
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