Dal sito www.labottegadelbarbieri.org
01 Agosto 2023
di Giulia Rubino, Martina Lo Cascio, Luigi Conte (*)
Per il Coordinamento siciliano «Salviamo i boschi», che da anni si batte per preservare il territorio dell’isola, gli incendi si fermano mettendo le pratiche delle comunità davanti agli interessi degli individui.
Tra il 24 e 25 Luglio, con temperature arrivate oltre i 40 gradi, in Sicilia si sono diffusi come ormai ogni anno incendi nei boschi, nei terreni agricoli, nelle riserve.
Le fiamme però questa volta sono state capillari e hanno raggiunto discariche, case, quartieri, ospedali in città, cosa che ha aumentato la paura e la consapevolezza della vulnerabilità della popolazione.
Anche questa volta la rabbia si è diffusa tra i cittadini che però spesso finiscono per inneggiare alla caccia al piromane.
Con l’obiettivo di creare alleanze tra soggettività diverse impegnate a dire basta agli incendi, abbiamo intervistato Giulia Rubino, attivista del Coordinamento siciliano «Salviamo i boschi» nato nel 2017, per aiutarci a comprendere le ragioni politiche di questa emergenza nel contesto del cambiamento climatico, per individuare le rivendicazioni da porre per la cura e la gestione democratica dei nostri territori e per consolidare la solidarietà prendendo spunto dalle pratiche di mutuo aiuto popolare per lo spegnimento dei fuochi.
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Da diversi anni la stagione degli incendi è sempre più lunga: l’aumento delle temperature medie annuali, l’alterazione delle precipitazioni e il verificarsi di eventi meteorologici estremi come ondate di calore e siccità aumentano lo stress idrico della vegetazione rendendola altamente infiammabile ed esponendola a incendi sempre più frequenti.
Senza dubbio questo è vero ma anche questa affermazione espone a rischi retorici. L’aumento degli incendi è dovuto soprattutto alla gestione territoriale e alla prevenzione della politica inefficiente, arcaica, volutamente frammentata e affidata a mezzi e strumenti insufficienti e, laddove viene effettuata, viene comunque attuata ogni anno in ritardo.
Cosa è successo, di diverso dagli altri anni, in questi ultimi giorni in Sicilia?
Di diverso, secondo me, proprio niente. Ciò che forse ha scioccato maggiormente la popolazione è stato che è successo tutto insieme. Il piano d’azione è sempre lo stesso, i punti di innesco degli incendi sono sempre gli stessi, studiati con precisione millimetrica per garantire la «buona riuscita» del disastro contando appunto anche sul fatto che la politica di prevenzione antincendi della Regione Sicilia è sempre la stessa: volutamente frammentata e inefficiente, con pochi mezzi a terra, malridotti e antiquati, numeri esigui del personale addetto allo spegnimento.
C’è un disegno criminale dietro, c’è chi vuole l’emergenza, non a caso i fuochi divampano tutti nelle stesse giornate, poco prima dello scirocco, poco prima del caldo più incredibile della stagione. Chi attua il piano è consapevole di queste condizioni climatiche e le sfrutta.
Nonostante lo shock sia forte però ci sono dei gruppi che si stanno impegnando nello spegnimento attivo, come il Mai (Movimento Antincendio Ibleo) che è un po’ il capostipite in questo tipo di azioni. Dal 2020 hanno iniziato a dire «qua ce li dobbiamo spegnere da soli gli incendi».
Li cito sempre perché sono degli eroi che si mettono in prima linea e il paradosso è che non sono sostenuti legalmente: non è infatti possibile a livello legale autorganizzarsi per spegnere i fuochi. Per chi governa la Sicilia evidentemente è meglio il disastro e l’emergenza di anno in anno.
Raccontaci brevemente com’è nato questo attivismo sugli incendi in Sicilia. Qual è la composizione di attivisti e attiviste? Avete preso spunto da mobilitazioni e movimenti passati?
Il Coordinamento regionale siciliano «Salviamo i boschi» nasce da tre associazioni della Sicilia occidentale nel 2017, quando ci sono stati i grandi incendi alla riserva naturale dello Zingaro dalla quale scaturì una marcia a cui parteciparono circa 3000 persone, culminata con la consegna di un dossier in procura a Trapani con dati e prove sull’inefficienza della politica forestale e della prevenzione incendi. La riforma del corpo forestale è uno dei punti chiave del nostro «Manifesto per un politica di contrasto attivo agli incendi nella Regione Sicilia» che con le 60 associazioni che poi hanno di fatto costruito il coordinamento regionale abbiamo articolato in 22 proposte.
Come si lega la vostra analisi al discorso sul cambiamento climatico? Anche rispetto alle alleanze ad esempio con i movimenti per la giustizia climatica nelle città.
Riguardo al cambiamento climatico, noi abbiamo detto da sempre che peggiorerà la situazione. Secondo gli studi la Sicilia sarà al 75% a rischio di desertificazione tra il 2050 e il 2075. Quindi è normale che questa condizione di caldo estremo non può che peggiorare le cose. E questo peggioramento purtroppo viene anche strumentalizzato quando si dice che gli incendi «sono effetti della crisi climatica, eventi estremi imprevedibili».
No, non sono eventi imprevedibili. Il cambiamento climatico viene poi strumentalizzato anche per colpevolizzare il singolo cittadino: «Non hai ancora comprato l’auto elettrica?».
Il cambiamento climatico, in generale, rende ancora più favorevole l’ambiente per i disastri se non si agisce prima. Questa consapevolezza dovrebbe essere un’opportunità di comprendere l’aumento dei rischi dei disastri, in questo caso degli incendi.
Sul piano politico come riuscite ad andare oltre la colpevolizzazione del singolo, la criminalizzazione del pazzo piromane, che è la reazione più diffusa verso cui si canalizza la rabbia e l’indignazione?
La rabbia si canalizza in questo senso perché è questa la narrazione della politica.
I politici si deresponsabilizzano, non ammettono la frammentazione della gestione territoriale siciliana, i loro annuali ritardi nella prevenzione e nella pulizia di boschi e riserve, la mancanza di investimenti strategici, il loro affidarsi a ditte esterne per la gestione dei Canadair (che costa a noi contribuenti milioni di euro l’anno), la mancata stabilizzazione dei precari forestali, ecc. Un dato su tutti è che nessuno dei 22.000 operai forestali siciliani ha funzioni di spegnimento incendi: con la dovuta formazione – e relativa stabilizzazione – potrebbero invece ricevere un ruolo più specifico e necessario.
Il coordinamento «Salviamo i boschi» denuncia questa situazione ormai da sei anni e ha proposto un piano d’azione per cambiare rotta, che abbiamo presentato all’Assemblea regionale siciliana insieme a una petizione con più di 40.000 firme di cittadini e cittadine. Ma non ha mai ricevuto alcuna risposta.
Questa è la cronaca di un disastro annunciato e stra-annunciato. Quindi innanzitutto a qualsiasi cittadino io direi di non credere alle parole che ripetono i politici e i media in generale. Il problema è complesso sicuramente, perché ogni territorio ha delle dinamiche diverse. La Sicilia è un’isola, una regione singola che «aspira a essere continente» perché ha delle dinamiche molto variegate al suo interno, e l’avere istituito un coordinamento regionale ci ha aiutato a capirlo. Le dinamiche sono complesse così come gli interessi in gioco. In certi territori ha un peso maggiore la mafia dei pascoli, quindi i pastori che hanno interesse a bruciare per garantirsi sia il pascolo verde sia il passaggio attraverso determinati terreni, per esempio nella provincia di Ragusa questo fenomeno è più evidente. In altri territori c’è un interesse che deriva dalla precarietà dei 22.000 operai forestali della regione Sicilia.
La mancanza di un piano di prevenzione va di pari passo con gli interessi criminali che si possono quantificare se guardiamo alla spesa regionale annuale di 30 milioni, di cui 13 milioni all’anno per lo spegnimento degli incendi. Per questo buona parte del nostro lavoro si incentra sull’inchiesta per arginare e punire la matrice dolosa non tanto del singolo incendio ma del piano criminale. Occorre una Commissione di Inchiesta Regionale permanente e che gli incendi dolosi in aree boschive e montane e nelle riserve vengano giudicati come «disastri ambientali», indentificandoli come eco-reati, dal momento che spesso tali incendi hanno rappresentato un’alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema interessato.
Tutt’altro lavoro va fatto sul piano della prevenzione pianificata per renderlo anche un criterio prevalente per l’attribuzione degli incentivi alla produttività previsti dal Decreto legislativo n. 150 del 2009 nel settore forestale e al contempo garantire la graduale stabilizzazione dei precari al fine di evitare meccanismi equivoci o propriamente clientelari legati al sistema delle assunzioni.
Se da un lato è fondamentale sostenere i Comuni affinché non affidino i propri servizi a ditte private, dall’altro uno strumento importantissimo sarebbe il Catasto dei suoli percorsi dal fuoco secondo quanto previsto dalla legge quadro 353 del 2000 (art.10) e unitamente a questo garantire la sorveglianza del territorio specie nelle giornate ad alto rischio incendi.
Gli strumenti che suggeriamo sul piano della prevenzione si rivolgono da un lato alle amministrazioni locali e dall’altro ai cittadini che andrebbero messi in condizione di organizzarsi per diventare custodi del territorio oltre la propria proprietà privata.
Da questi giorni possiamo trarre come punto positivo una consapevolezza maggiore e diffusa che gli incendi non riguardano soltanto i boschi. Allo stesso tempo realizziamo più che mai di essere vulnerabili, e quanto questo coinvolga la società intera. Come vanno costruite le rivendicazioni politiche e le alleanze tra le soggettività che dovrebbero portarle avanti?
La prima alleanza va costruita tra città e campagna, che è la cosa assolutamente indispensabile. Per questo come coordinamento abbiamo anche proposto di supportare i lavoratori e le lavoratrici delle aree rurali, di integrare il reddito dei contadini, delle comunità montane, delle persone che vivono nelle aree rurali.
Continuare a costruire il raccordo tra città, campagna e aree rurali è fondamentale perché è proprio il presidio della comunità che vive la montagna, che vive il bosco, che vive le aree rurali, che può permettere la gestione sana del bosco stesso, di quel territorio. Se non c’è presidio, se non c’è comunità, si è in mano a persone che hanno altri interessi. Se si capisce questo diventa evidente che la prima causa del problema è lo spopolamento delle aree interne, delle aree rurali, perché se non c’è un custode, se non c’è una comunità che si prende carico del territorio, il territorio lasciato a sé stesso è nelle mani di soggetti che non hanno nessuna visione del bosco come bene comune.
Come possiamo proporre a chi è arrabbiato per la situazione che abbiamo vissuto in Sicilia da un lato di informarsi e denunciare e dall’altro di agire qui e ora con il proprio vicino o compagno?
Dovremmo prendere esempio dai ragazzi del Mai che vanno in giro a fare laboratori per costruire i flabellotti, si tratta di mazze fatte di materiale apposito che non si infiamma subito e spengono gli incendi così, con gli zaini e un po’ d’acqua. Possiamo organizzare in tutti i territori presidi che si coordinino, che si scambino informazioni e buone pratiche: sin da subito dobbiamo costruire dei meccanismi concreti di solidarietà, azione e alleanze.
(*) Tratto da Jacobin Italia.
Luigi Conte, biofisico, dottorando in scienze ambientali all’Università Ca’ Foscari di Venezia, attivista nel collettivo di Scienza Radicata.
Martina Lo Cascio sociologa all’Università di Padova, si occupa di Supermarket Revolution, lavoro e agricolture. È attivista di Contadinazioni e FuoriMercato autogestione in movimento.
Giulia Rubino, insegnante e attivista di Istituto Terra, collettivo ambientalista parte integrante del Coordinamento regionale «Salviamo i Boschi Sicilia»
Fonte: www.labottegadelbarbieri.org
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