Arrivano le condanne anche per gli insulti social
Di Fabio Salamida - 5 Febbraio 2020
Il falso mito dell’impunità per chi riempie i social di insulti è sempre più smentito dalle condanne che fioccano nelle aule dei tribunali di tutto il Paese. E se a ricevere maggiore attenzione da parte degli organi di informazione sono le sentenze che coinvolgono personaggi pubblici come quella che lo scorso anno ha condannato il sindaco leghista di Pontinvrea, Matteo Camiciottoli, a un risarcimento di 20mila euro per aver augurato lo stupro all’ex Presidente della Camera, Laura Boldrini, sono in costante aumento anche i procedimenti giudiziari che coinvolgono normali cittadini.
L’ultimo caso è quello di un 46enne di Modena che dovrà scontare quattrocento ore di lavoro socialmente utile a titolo gratuito per aver scritto su Facebook delle frasi razziste – con riferimenti a campi di concentramento e fuoco – contro una famiglia nomade di origine sinti. Il giudice ha inoltre stabilito che l’uomo dovrà presentare un’offerta di risarcimento ai destinatari delle offese, al fine di evitare il processo per diffamazione aggravata dall’odio razziale. La condanna è la prima nell’ambito di un’inchiesta partita nel 2014 che coinvolge altre sei persone che il prossimo 20 febbraio dovranno presentarsi davanti al giudice per rispondere delle medesime accuse. Tutti erano stati denunciati per una serie di commenti lasciati sotto un articolo giornalistico relativo al campo nomadi dove viveva la famiglia.
Tempi duri, insomma, per i cosiddetti “leoni da tastiera”. E chi invoca la “libertà di espressione del pensiero” tutelata dalla Costituzione per giustificare ingiurie lasciate contro politici, giornalisti, attori, cantanti o cittadini comuni, farebbe bene a leggersi la sentenza numero 11409 emanata dalla Corte di Cassazione il 18 marzo 2015: “Il riconoscimento del diritto di critica – si legge – tollera giudizi anche aspri sull’operato del destinatario delle espressioni, purché gli stessi colpiscano quest’ultimo con riguardo a modalità di condotta manifestate nelle circostanze a cui la critica si riferisce; ma non consente che, prendendo spunto da dette circostanze, si trascenda in attacchi a qualità o modi di essere della persona che finiscano per prescindere dalla vicenda concreta, assumendo le connotazioni di una valutazione di discredito in termini generali della persona criticata”.
Insomma, insultare una persona, diffamarla, augurargli la morte o lo stupro non è libertà di opinione, è reato: e se la vittima è discriminata per il colore della sua pelle, la sua religione o il suo orientamento sessuale ci sono anche le aggravanti del caso. Quanto ai vigliacchi che per diffamare utilizzano profili falsi, anche per loro ormai non c’è più scampo: la Polizia Postale è da tempo dotata di tecnologie all’avanguardia che permettono in un tempo relativamente breve di risalire al proprietario del dispositivo e all’intestatario della rete da cui partono i messaggi incriminati. I social network, dal canto loro, vista la vasta diffusione del fenomeno e i tanti casi di cyberbullismo, sono sempre più disponibili a collaborare con le autorità.
E non ci sarà da stupirsi se nelle prossime rilevazioni sui numeri dell’hate speech si noterà una forte diminuzione del fenomeno. Purtroppo siamo il Paese dove l’educazione civica cammina sempre un passo indietro rispetto alle sanzioni.
Fonte: www.tpi.it
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