25 Maggio 2017
Dipendente in esubero: legittimo il licenziamento anche solo se c’è necessità di aumentare i ricavi e ridurre gli sprechi.
Via libera al licenziamento dei dipendenti inutili, anche se l’azienda produce in utile e la cancellazione del posto di lavoro non serve per far fronte ad una probabile crisi. È la Cassazione a dirlo, dopo anni di giurisprudenza favorevole al lavoratore, con una sentenza pubblicata ieri [1]. Il datore di lavoro può quindi licenziare il dipendente in esubero anche solo per aumentare i propri ricavi, benché le casse dell’azienda siano già sufficientemente “piene”. Non ha fatto bene i conti con gli investimenti? Ha esagerato nelle assunzioni? Non gli si può dare alcuna colpa, anche perché il giudice non può entrare nel merito delle scelte imprenditoriali, ma verificare solo che il «giustificato motivo oggettivo» addotto come causa del licenziamento sia effettivo. Così, se il dipendente contesta il provvedimento che lo riconfina tra i disoccupati, l’azienda non ha che da spiegare e dimostrare le ragioni della propria valutazione, valutazione che però, se effettiva, non può essere messa in discussione dal giudice.
Sono queste le coordinate del nuovo modello di licenziamento per ragioni aziendali ormai ridisegnato dalla Cassazione da qualche anno: gli Ermellini hanno ormai detto addio alle tradizionali forme di licenziamento basate solo su motivi disciplinari, ristrutturazione o crisi aziendale. Di tanto abbiamo già parlato in Come licenziare un dipendente a tempo indeterminato e in Come licenziare un dipendente assunto. In altre parole, si può procedere al «licenziamento per giustificato motivo oggettivo» (così viene detto quando il provvedimento non trova causa in un comportamento del dipendente ma in ragioni connesse all’attività) anche solo se c’è bisogno di provvedere a una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, per una gestione aziendale più efficiente e produttiva. Pertanto, determinate mansioni possono essere accorpate a quelle di un altro dipendente o suddivise fra più lavoratori e, all’esito, una o più posizioni lavorative possono risultare in esubero e non riassorbili (neanche con il ripescaggio, ossia l’attribuzione a mansioni equivalenti o inferiori).
Né conta che la società avesse utili in bilancio al momento del licenziamento, proprio perché il datore di lavoro può ricercare il profitto mediante la riduzione del costo del lavoro e di altri fattori produttivi, purché tale obiettivo non venga perseguito solo alle spalle dei dipendenti, ossia con l’abbattimento del costo del lavoro. In termini più pratici, non si può procedere al licenziamento di un dipendente senza che vi sia un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva, ma solo dal fine di sostituirlo con un altro pagato di meno, pur essendo addetto alle medesime mansioni. Diversamente, si dovrebbe ammettere la legittimità del licenziamento soltanto ove esso tenda ad evitare perdite di esercizio (e quindi, in prospettiva, a prevenire il rischio di fallimento dell’impresa) e non anche a migliorarne la produttività.
[1] Cass. sent. n. 13015/17 del 24.05.2017.
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SENTENZA
Con sentenza pubblicata il 21.3.14 la Corte d’appello di Brescia rigettava il gravame di C.G. contro la sentenza n. 729/13 con cui il Tribunale della stessa sede aveva rigettato la sua impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli con lettera del 14.9.11 dalla S.A. Eredi Gnutti Metalli S.p.A..
Per la cassazione della sentenza ricorre C.G. affidandosi a due motivi.
S.A. Eredi Gnutti Metalli S.p.A. resiste con controricorso.
Le parti depositano memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
1.2. Il motivo va disatteso perché sostanzialmente sollecita una rivisitazione nel merito della vicenda e delle risultanze istruttorie affinché se ne fornisca un diverso apprezzamento.
Si tratta di operazione non consentita in sede di legittimità, ancor più ove si consideri il nuovo testo dell’art. 360 co. 1 n. 5 cod. proc. civ. (applicabile, ai sensi del cit. art. 54, co. 3, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, cioè alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 e, quindi, anche alla pronuncia in questa sede impugnata): in esso il vizio consiste, come statuito da Cass. S.U. 7.4.14 n. 8053 e dalle successive pronunce conformi, nell’omesso esame d’un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica (e, quindi, non un punto o un profilo giuridico o la maggiore o minore significatività del fatto medesimo o il suo apprezzamento) e non nella diversa ricostruzione dei fatti rilevanti ai fini del decidere o in un difforme apprezzamento di determinati elementi probatori.
E non può dirsi che la sentenza impugnata abbia omesso di prendere in esame il fatto della mera assegnazione ad altro dipendente delle mansioni originariamente svolte dal ricorrente: la circostanza, anzi, è stata espressamente esaminata e considerata giuridicamente irrilevante ai fini dell’invocata esclusione del giustificato motivo oggettivo, conformemente alla giurisprudenza di questa S.C. (su ciò v. meglio infra).
2.1. Con il secondo motivo ci si duole di violazione e falsa applicazione dell’art. 3 legge n. 604 del 1966 nella parte in cui la sentenza impugnata, nel valutare la necessità dell’esistenza di sfavorevoli e non contingenti situazioni tali da imporre una riduzione dei costi mediante licenziamento del ricorrente, ha dichiarato irrilevante il fatto che al momento del recesso la società presentasse utili di bilancio ed avesse appena fatto investimenti per milioni di Euro.
2.2. Il motivo è infondato, dovendosi dare continuità alla giurisprudenza di questa Corte Suprema (cfr., da ultimo e per tutte, Cass. n. 19185/16) secondo cui il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 legge n. 604 del 1966, è ravvisabile anche soltanto in una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di una più efficiente e produttiva gestione aziendale, nel senso che certe mansioni possono essere accorpate a quelle di altro dipendente o suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate, con il risultato finale di far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente, purché tale diversa distribuzione dei compiti sia causalmente all’origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta.
Nel caso di specie la sentenza impugnata ha accertato la genuinità del riassetto organizzativo che ha portato ad assegnare ad altro lavoratore (già da tempo in servizio e con maggiori carichi di famiglia) le mansioni di responsabile Movimentazione AGV Ballotti in precedenza espletate dall’odierno ricorrente.
Né rileva l’eventuale esistenza di utili di bilancio, atteso che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro, nel procedere al riassetto della sua impresa, può ricercare il profitto mediante la riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi, fermo il limite che il suo obiettivo non può essere perseguito soltanto con l’abbattimento del costo del lavoro, ossia con il puro e semplice licenziamento di un dipendente non giustificato da un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva, ma solo dal fine di sostituirlo con un altro meno retribuito, ancorché addetto alle medesime mansioni.
Ne consegue che, in caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro – al quale l’art. 41 Cost., nei limiti di cui al comma 2, lascia la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi ai fini dell’incremento della produttività aziendale – non è tenuto a dimostrare l’esistenza di sfavorevoli situazioni di mercato, trattandosi di necessità non richiesta dall’art. 3 della citata legge n. 604 del 1966.
Diversamente, si dovrebbe ammettere la legittimità del licenziamento soltanto ove esso tenda ad evitare perdite di esercizio (e quindi, in prospettiva, a prevenire il rischio di fallimento dell’impresa) e non anche a migliorarne la produttività.
Ma una conclusione del genere non si ricava dall’art. 3 cit. legge n. 604 del 1966 né dall’art. 41 Cost.: infatti, la libertà di iniziativa economica privata non può ridursi ad un’attività improduttiva di redditi e, perciò, mirante ad una mera economicità di gestione. Ciò sarebbe in astratto concepibile per un ente pubblico economico che agisse in condizioni di monopolio e non per un’impresa privata attiva all’interno d’un regime di concorrenza, nel quale, in termini microeconomici e nel lungo periodo, se operante con il maggior costo unitario di produzione essa sarebbe destinata ad essere espulsa dal mercato (cfr., per tutte e da ultimo, Cass. n. 13516/16; Cass. n. 25201/16).
Né, da ultimo, può supporsi che il contemperamento fra gli opposti interessi possa risolversi bilanciando tra loro da un lato quello imprenditoriale ad un incremento di produttività e, potenzialmente, di redditività e, dall’altro, quello del dipendente a mantenere una data occupazione: un bilanciamento del genere presupporrebbe – a monte la risposta all’interrogativo su quale sia il limite consentito del saggio di profitto e come se ne determini l’andamento, tema su cui si sono cimentati economisti e filosofi, ma che poco si presta a ricevere un responso giudiziario in assenza di precisi parametri normativi.
In conclusione, va ribadito che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento previsto dall’art. 3 legge n. 604 del 1966 è ravvisabile anche soltanto in una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, all’esito della quale una o più posizioni lavorative risultino in esubero e non riassorbibili in via di c.d. repèchage.
Ciò – è appena il caso di ricordare – ovviamente non esime il giudice dal controllare che tale riorganizzazione, pur non sindacabile nel merito, nondimeno sia genuina (ossia effettiva e non meramente apparente o pretestuosa), preceda logicamente e/o cronologicamente il licenziamento stesso (altrimenti sarebbe mero effetto di risulta d’una scelta diversa da quelle tecnico-organizzative o produttive consentite dall’art. 3 cit.) e derivi da necessità non meramente contingenti e transeunti (cioè non destinate ad essere certamente riassorbite in un breve arco di tempo).
3.1. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall’art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.
Fonte: www.laleggepertutti.it
I"Credenti" della stabilizzazione cosa ne pensano?aldorizza
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