25 luglio 2012

SICILIA IL MAL COMUNE

 

Sicilia, il mal comune

Regione in default. Colpa della politica, certo. Ma esistono delle responsabilità condivise dai cittadini?
La Sicilia è vicina al default. L’allarme è partito dal ’New York Times’. Secondo il quotidiano americano, i problemi fiscali e finanziari dell’isola potrebbero diventare simili a quelli di Atene, travolgendo il Paese. Sotto accusa il maxidebito della Regione. Ben cinque miliardi di euro (esposizione accertata dalla Corte dei Conti, nel rendiconto generale del 2011) accumulati in decenni di spesa pubblica fuori controllo, con una grossa matrice clientelare, con una sequela impressionante di sprechi.
Non mancano gli esempi clamorosi, riportati con dovizia di particolari da giornali di tutto il mondo. Si va dall’acquisto di due orche marine islandesi, comprate nel 1984 dalla Sicilia per animare un parco acquatico a Sciacca, e lasciate parcheggiate per decenni in Islanda al costo di sei milioni di lire al mese, ai 240 milioni l’anno spesi dalla Regione per una formazione professionale di massa che diventa una sorta di sussidio permanente per migliaia di disoccupati, fino al mostruoso numero di dipendenti.
In Sicilia lavorano per l’ente regionale circa 18mila persone, a cui si aggiungono altri 10mila lavoratori di società partecipate o a tempo determinato. Dieci milioni di euro l’anno costa solo il 118 siciliano, con i suoi circa 4mila addetti. Il doppio di quello che costa in Piemonte. Una situazione esplosiva, su cui il Governo nazionale ha il dovere di vigilare e che potrebbe condurre al commissariamento della Regione e ad un piano localizzato di sacrifici e tagli pluriennali.
Ma come si è arrivati a questo punto? La vicenda della regione siciliana dice molto al Paese. E racconta parte della crisi profonda dell’Italia. Se in Sicilia il debito ammonta a 5 miliardi di euro (verso privati e fornitori), il debito pubblico italiano (verso risparmiatori e speculatori che sottoscrivono i titoli di Stato) ammonta a duemila miliardi di euro. Spesa pubblica fuori controllo. Senza costruire servizi pubblici efficienti. Spesa pubblica clientelare, utilizzata dalla cattiva politica per tessere trame di miserabile potere con la cattiva cittadinanza. Pessima politica, pessimo popolo. Qualcosa per ognuno, e tutti contenti. Pensando che non si sarebbe mai pagato il conto.
Una pensioncina di invalidità falsa, qualche sussidio col trucco, un lavoro pubblico dove stai due ore in ufficio e poi fai l’attività a nero, finanziamenti a fondo perduto per imprese decotte, con personale decotto, con produzione decotta; pubblico impiego che lavora poco e male, foraggia se stesso con indennità aggiuntive, straordinari fasulli, pensioni baby, piccole prebende. E poi falso lavoro privato per falsi lavoratori privati con soldi veri e pubblici. Finanziamenti a pioggia, un po’ qui, un po’ lì, senza mai chiedersi a cosa servissero. O meglio, la spesa per la spesa. La formazione per dare lavoro ai formatori. Il sociale per far lavorare gli operatori. I forestali per i forestali, mica per le foreste. Una vera e propria economia del parassitismo. Il vantaggio personale. Minimo sforzo, qualcosa per me, qualcosa per te. Tutto poggiato sul debito, e su un castello di voti scambiati, di una mano lava l’altra, di un reticolo clientelare di piccoli, medi, grandi tornaconti.
In questo scenario, possiamo credere alla fiaba della classe politica colpevole e del popolo innocente, come qualcuno, in questa fase di crisi, vuole proporre? Mi sembra di no.
I gruppi dirigenti hanno sicuramente grosse responsabilità, ma non si sarebbe arrivati a questo senza un’ampia complicità sociale. Borghesia delle professioni, imprenditori, lavoratori, famiglie, associazioni, chiesa: non c’è elemento del meccanismo sociale che non si sia lasciato ungere dal clientelismo, dal patto parassitario. Ecco perchè si illude chi pensa che il cambiamento possa avvenire solo con la sostituzione della classe politica, con il rinnovamento dei gruppi dirigenti.
Bisogna fare un salto culturale. Entrare in un pensiero nuovo. Con il merito a selezionare, il valore a guidare; dove non ci sia diritto senza dovere, dove l’esercizio della cittadinanza, del voto consapevole, della militanza territoriale, della cura del "noi", siano centrali; dove non esistono soldi di nessuno, a cui attingere truccando le carte. Dove il denaro pubblico, e la funzione pubblica, e tutto quello che è pubblico, sia considerato un po’ di tutti, e venga curato con la stessa attenzione della nostra casa, delle nostre cose. Una rivoluzione.

24 Luglio 2012 

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